Godspeed You! Black Emperor live at Estragon
Bologna, 26-01-2011
Per disarmare un uomo hai bisogno di un’arma a tua volta, o di decenni di esperienza nella disciplina delle arti marziali, e certe volte può non bastarti. Per disarmare una nutrita massa di individui, più o meno competenti ed esigenti, possono bastare una manciata di lunghi minuti, tre chitarre, due bassi, due batterie, un violino e, non ultimo, una ragione sociale: devi chiamarti Godspeed You! Black Emperor.
Un ritorno atteso più di sette anni, una band che non si è mai ufficialmente sciolta, muovendosi centrifugamente verso molte altre direzioni (Thee Silver Mt. Zion su tutte), abbagliando i suoi adoratori di una luce cristallina, ma riflessa. Il pubblico accorso all’Estragon di Bologna non è diverso da quello di allora, lo riconosci perché porta sul viso sincere rughe d’attesa e devozione. Non ci sono nuove leve ad attendere i GY!BE, o se ci sono si mimetizzano accuratamente dietro un paio di occhialoni da nerd, perché il supergruppo capitanato da Efrim Menuck ha sempre rifuggito con timida eleganza le mode e le tendenze, barricando la sua musica nel respiro dilatato e universale della Terra.
Freddo irriverente, fuori dall’Estragon, dove alle nove e mezza di sera le porte sono ancora sigillate e noi intirizziti. Tempo mezzora e una folla lenta, educatissima (si, siamo al concerto giusto), sciama all’interno del locale, senza sapere ancora bene cosa aspettarsi dalla prima delle due date italiane della band canadese. Quanta ruggine, quanta stanchezza, quanta rivalsa o invece convenienza ci sarà nell’imperdibile ritorno dal vivo dei Godspeed? Una birra, una veloce perlustrazione del banchetto del merchandising (dove tutto, dai vinili agli ep alle t-shirt ai poster, costa venti euro…), l’ascolto di un sassofonista (Colin Stetson, già negli Arcade Fire, apprendiamo in seguito) che propone un set di virtuosismi schizofrenici (e polmoni d’acciaio), e poi, eccoli: i feedback. Piazzati lì, in sottofondo per non disturbare, sono le sentinelle sonore mandate in avanscoperta per preparare le orecchie a ciò che sarà da lì alla fine. Le aspettative prima dell’entrata in scena: un’ora e mezza tirata, senza soluzione di continuità, tre o quattro pezzi che muoiono e rinascono uno dentro l’altro, applausi all’inizio, applausi alla fine, e tutti a casa. Compitino portato a termine egregiamente, statura di mostri sacri, contenti loro, contenti noi. Invece i GY!BE salgono sul palco con la solita mestizia degli introversi (strafottenti?) e fagocitano i presenti nel loro viaggio sensoriale di centoquaranta minuti, dando riposo agli strumenti per pochi secondi di applausi tra un brano e l’altro e mettendo a dura prova i limiti fisici del sottoscritto e di molti altri eletti.
Dentro al quarto d’ora di feedback crescente, lento ed inesorabile, gli otto elementi del collettivo prendono con disinvoltura i loro posti uno per volta, senza mostrare mai chiaramente la loro identità: tecnici o musicisti? Poi qualcosa di organico comincia a fuoriuscire dal magma vibrante del suono, l’om si evolve, dividendosi progressivamente in flussi paralleli sempre più distinguibili, la parola “hope” appare gigantesca e intermittente sugli schermi alle spalle del gruppo e l’arrivo sul palco di Mr. Menuck sancisce ufficialmente l’inizio del viaggio. Non un cenno al pubblico, non una parola, né ora, né alla fine. Sembrano fantasmi.
Fin da subito, occorre la pazienza dei saggi: il manifestarsi della musica ha gli stessi tempi eterni della creazione del mondo. Archetti e piccole bacchette scorrono sulle corde elettrificate, strisciando per lunghi minuti prima che un qualsiasi elemento percussivo arrivi finalmente ad interrompere i flussi. Il collettivo è stasera di otto elementi, disposti a semicerchio come da copione, le tre chitarre sedute, gli archi e i bassi elettrici in piedi. Una delle due batterie è completamente nascosta dietro l’impressionante numero di amplificatori, montati in torri tanto suggestive quanto all’apparenza pericolosamente instabili. È su questo set di uomini e macchine che un duplice documento visivo viene ininterrottamente proiettato, seguendo i tempi dilatati della musica e vivificandone con rude semplicità i messaggi.
Le due ore abbondanti di concerto portano sul palco, in un’esecuzione pressoché sempre perfetta, potente ed evocativa, quasi tutto il meglio del repertorio: nei sette chilometrici frammenti in cui si divide il live si riconoscono tre delle quattro suite di Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven (Storm, Static e Sleep, ovvero tutto ciò che è servito a consegnare il gruppo alla storia), l’intero corpus dello Slow Riot For New Zero Kanada EP, composto dalla scarnificante BBF3 e dalle soavi scale ascensionali di quel capolavoro che è Moja, Rockets Fall On Rocket Falls dell’ultimo, magniloquente lavoro Yanqui U.X.O. e, in chiusura, pure una celebrazione del folgorante esordio F# A# ∞: East Hastings incanta una platea ormai sofferente fisicamente (di ventenni pochissime tracce) e già in buona parte ridottasi per limiti invece cerebrali (pretendono e si prendono tutto, i Godspeed. Quando non ne hai più non hai neppure più scelta: devi andartene).
Al parcheggio è ormai l’una passata. Siamo stanchi e, soprattutto, ancora lontani da casa. C’è il tempo per qualche commento, per qualche aneddoto che, in simili momenti, scatena l’ilarità generale (si riporta l’opinione di un astante, più o meno del tipo: “Sì, bravi. Un po’ prolissi, ma bravi”) e per maledire la sveglia che il mattino dopo, irrispettosa ed ignara di tutto, non mancherà di fare il suo lavoro, restituendo alla dura realtà i nostri animi rapiti.
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