Godspeed You! Black Emperor
Slow Riot For New Zero Kanada
Quasi persi in un bosco, ci troviamo a respirare il giallo e il rosso. Protetti da un casa d'alberi; il sole più su, frantumato dai profili di rami secchi, marrone il colore. Il verde piange, si fa avanti e dice: "dove posso vivere?". "Anche nelle rade macchie di terra scricchiolante, anche".
Eccoli i colori pastello del quadro autunnale dei Godspeed You! Black Emperor, un vortice di tonalità granulose, delicatissime, infinitesimali.
L'intento dei GY!BE è chiaro: le lunghe suite, costruite per amor d'epicità, si snodano attraverso affreschi eterei del corpus strumentale (una vera e propria orchestra, per inciso), che partono dolci e armoniose sulle prime note, per poi sfociare in esplosioni colme di pathos post-rockiano; la rabbia del gruppo(ne) canadese prende forma e sostanza lentamente, in un meccanismo di quiete-tempesta progressiva.
La fierezza compositiva dei King Crimson, sempre incline all'evoluzionismo sonoro all'interno di un medesimo brano, al servizio di un Barocco scarnificato nell'aspetto e rinnovato (e rinfrescato) da una nuova veste sentimentale. Il suono e le sue suggestioni.
Quello affrontato oggi, "Slow Riot For New Zero Kanada", è un EP "potente" e denso di retroscena, corto-lungo. Molte le sfaccettature: dai sospiri pacati di una neo-classica agli urli di un post-atomico-rock, passando per i respiri di bocche parlanti, di intermezzi dialogati.
Non solo musica quindi, anche film: non a caso scelti per varie colonne sonore, i Godspeed You! Black Emperor cercano da sempre un'interazione teatrale con gli ascoltatori, specialmente con il loro pubblico "da concerto"; un'alchimia empatica che mira alla riflessione o, più semplicemente, al rilassamento dei sensi. Come la catarsi, più della catarsi.
Avviene così che diventiamo partecipi del loro melodramma: la vaghezza e l'indeterminatezza del prologo ci inspirano una riflessione sensoriale che viene poi ampliata, nel parodo, dai presagi di un temporale ritmico in arrivo; si avvertono i primi tuoni strumentali, i primi battiti della batteria, che vengono subito affiancati, in un percorso a più episodi, dalle accelerate improvvise degli archi e delle chitarre elettriche; rimbomba la nostra testa, usata ormai come cassa di risonanza di questo crescente delirio strumentale; interviene qualche stasimo recitativo a spezzare l'azione scenica... ma è poca cosa, è troppo tardi. Non ci resta che essere sopraffatti dagli ultimi echi orchestrali in lontananza-vicinanza, e aspettare un silenzioso esodo ("Moya" e "Blaise Baylei Finnegan!").
Come la musica può divenire film, e insieme spettacolo, e insieme poesia, e insieme dolce-amaro vissuto.
Esperienze gagliarde.
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