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R Recensione

7/10

The Pirate Ship Quintet

Emitter

All’apice della crisi economica occidentale, navigando a vista in un futuro di incertezze, i bristoliani The Pirate Ship Quintet esordirono con “Rope For No-Hopers” – disco maestoso, sofferto e sofferente, oggi ricordato da pochi, un terribile diamante nero monumento del (post) rock in opposition che fu, sempre se di cultura e ideologia si può ancora oggi parlare senza essere preventivamente liquidati con un compassionevole sorriso di scherno. Un Rip Van Winkle che, dopo aver esperito angosce e frustrazioni di quel quotidiano, fosse poi caduto in un beneaugurante sonno profondo da cui riprendersi solamente oggi, farebbe probabilmente carte false per tornarsene da dov’era venuto, inorridito dall’inferno post-tutto che – superato a destra ogni nostro peggiore istinto – è diventata la realtà dei neo-sovranismi: quel Rip Van Winkle è stata a lungo proprio la formazione inglese che, in un febbrile letargo di sette anni, ha visto asciugarsi la line up (da sette a cinque membri), percorrere il lungo e tortuoso processo di composizione dei brani del secondo disco e cercare di sopravvivere al proprio tempo. Invece di battere in ritirata, la ciurma piratesca ha deciso di rimanere, lottare, raddoppiare la posta in gioco. Nasce così l’ambizioso second actEmitter”.

La complessa contraddittorietà del colpo di coda dell’Antropocene – dopo il convenzionale warm up di “First”, una corrusca ma efficace endtime ballad al livello dei migliori Crippled Black Phoenix di “Night Raider” – viene espressa nelle due lunghe suite che monopolizzano la prima metà di tracklist. L’acquatico minimalismo dei primi passi di “Companion” (16:54), affidato agli arpeggi obliqui delle chitarre di Alex Hobbis e Alphie Matthews e al violoncello di Sandy Bartai, allarga progressivamente le proprie maglie per accogliere il sacrale controcoro di Blythe Pepino, Emily Barker ed Emily Hall: il pezzo sembra evolvere in una Gesamtkunstwerk orchestrale, prima di retrocedere ad una dimensione da camera e deflagrare in una supernova elettrica. Lo sfrigolare dei tuoni nel plumbeo crescendo di “Third” si assorbe invece nel notturno slowcore del giro di arpeggi principale della title track (12:00), con l’accompagnamento morphiniano del sax di Andrew Hayes: le partiture si assottigliano poi in un lungo farsi e disfarsi strumentale, ancora una volta rimpallato fra chitarre e violoncello, ma la crepitante voce grossa del grande epilogo non sorprende più di tanto. Sono due buoni esempi di costruzioni polifoniche e polimorfiche, ma non per questo necessariamente arzigogolate: anzi, in questo caso la scelta di minutaggi espansi permette un coerente sviluppo narrativo di un numero tutto sommato limitato (e, qualitativamente, non inaspettato) di elementi. Quando poi, tra le suggestioni neoclassiche del violoncello di “Wreath”, ricompaiono le adamantine armonie del coro femminile, il sospetto di avere a che fare più con un unico grande movimento sinfonico che con composizioni indipendenti l’una dall’altra acquista consistenza: ipotesi ardita ma, di fatto, non smentita né dal tormentato jazz rock del singolo “Symmetry Is Dead” (impostazione classica, punto di contatto più evidente con “Rope For No-Hopers”) né tantomeno dal conclusivo requiem funebre di “Ninth”, meditazione codeiniana di grande impatto emotivo.

Non era, con ogni probabilità, il disco che ci si aspettava, anche se la scrittura – al netto di un filo di noiosa uniformità – rimane di assoluto livello. Il problema, se bisogna per forza di cose scovarne uno, sta nel disincanto esistenziale che è andato attanagliando col tempo l’ascoltatore e che gli impedisce, oltre una certa soglia, di sentir vibrare le stesse corde di sette anni fa. Il ridimensionamento del voto, soggettivo, occulta una più ampia ed oggettiva crisi epistemologica.

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