The Pirate Ship Quintet
Emitter
Allapice della crisi economica occidentale, navigando a vista in un futuro di incertezze, i bristoliani The Pirate Ship Quintet esordirono con Rope For No-Hopers disco maestoso, sofferto e sofferente, oggi ricordato da pochi, un terribile diamante nero monumento del (post) rock in opposition che fu, sempre se di cultura e ideologia si può ancora oggi parlare senza essere preventivamente liquidati con un compassionevole sorriso di scherno. Un Rip Van Winkle che, dopo aver esperito angosce e frustrazioni di quel quotidiano, fosse poi caduto in un beneaugurante sonno profondo da cui riprendersi solamente oggi, farebbe probabilmente carte false per tornarsene da dovera venuto, inorridito dallinferno post-tutto che superato a destra ogni nostro peggiore istinto è diventata la realtà dei neo-sovranismi: quel Rip Van Winkle è stata a lungo proprio la formazione inglese che, in un febbrile letargo di sette anni, ha visto asciugarsi la line up (da sette a cinque membri), percorrere il lungo e tortuoso processo di composizione dei brani del secondo disco e cercare di sopravvivere al proprio tempo. Invece di battere in ritirata, la ciurma piratesca ha deciso di rimanere, lottare, raddoppiare la posta in gioco. Nasce così lambizioso second act Emitter.
La complessa contraddittorietà del colpo di coda dellAntropocene dopo il convenzionale warm up di First, una corrusca ma efficace endtime ballad al livello dei migliori Crippled Black Phoenix di Night Raider viene espressa nelle due lunghe suite che monopolizzano la prima metà di tracklist. Lacquatico minimalismo dei primi passi di Companion (16:54), affidato agli arpeggi obliqui delle chitarre di Alex Hobbis e Alphie Matthews e al violoncello di Sandy Bartai, allarga progressivamente le proprie maglie per accogliere il sacrale controcoro di Blythe Pepino, Emily Barker ed Emily Hall: il pezzo sembra evolvere in una Gesamtkunstwerk orchestrale, prima di retrocedere ad una dimensione da camera e deflagrare in una supernova elettrica. Lo sfrigolare dei tuoni nel plumbeo crescendo di Third si assorbe invece nel notturno slowcore del giro di arpeggi principale della title track (12:00), con laccompagnamento morphiniano del sax di Andrew Hayes: le partiture si assottigliano poi in un lungo farsi e disfarsi strumentale, ancora una volta rimpallato fra chitarre e violoncello, ma la crepitante voce grossa del grande epilogo non sorprende più di tanto. Sono due buoni esempi di costruzioni polifoniche e polimorfiche, ma non per questo necessariamente arzigogolate: anzi, in questo caso la scelta di minutaggi espansi permette un coerente sviluppo narrativo di un numero tutto sommato limitato (e, qualitativamente, non inaspettato) di elementi. Quando poi, tra le suggestioni neoclassiche del violoncello di Wreath, ricompaiono le adamantine armonie del coro femminile, il sospetto di avere a che fare più con un unico grande movimento sinfonico che con composizioni indipendenti luna dallaltra acquista consistenza: ipotesi ardita ma, di fatto, non smentita né dal tormentato jazz rock del singolo Symmetry Is Dead (impostazione classica, punto di contatto più evidente con Rope For No-Hopers) né tantomeno dal conclusivo requiem funebre di Ninth, meditazione codeiniana di grande impatto emotivo.
Non era, con ogni probabilità, il disco che ci si aspettava, anche se la scrittura al netto di un filo di noiosa uniformità rimane di assoluto livello. Il problema, se bisogna per forza di cose scovarne uno, sta nel disincanto esistenziale che è andato attanagliando col tempo lascoltatore e che gli impedisce, oltre una certa soglia, di sentir vibrare le stesse corde di sette anni fa. Il ridimensionamento del voto, soggettivo, occulta una più ampia ed oggettiva crisi epistemologica.
Tweet