Cul de Sac
China Gate
Siamo nel 1996, e in quest'anno il frammentario panorama post-rock scrive dei capitoli tra i più importanti della sua storia, pagine lasciate a migliaia e migliaia di lettori a testimonianza di quanto di buono poteva essersi fatto in quegli anni. Perchè "Millions Now Living Will Never Die" dei Tortoise, "Horse Stories" dei Dirty Three e "Soundtracks for the Blind" degli Swans sono alcuni dei momenti più alti di tutti gli anni Novanta (in musica).
Nello stesso anno i Cul de Sac, la band di Glenn Jones & co., danno alle “stampe” "China Gate", cercando di trovare il giusto mezzo, l'aristotelica virtù tra la sperimentazione indefessa di "ECIM" (sarà doveroso discuterne tra qualche rigo, a proposito di questo disco) e quella pulizia, quel labor limae che portasse con sè quella ricercatezza nel suono che, a detta di molti, sembrava proprio mancare al complesso di Boston.
Digressione doverosa: nel 1992, quando il post-rock era ancora un oggetto misterioso, una realtà tutt'altro che immanente, e in pochi (Talk Talk, Slint, Moonshake e sparuti altri) sembravano averne intuito l'essenza, due anni prima che Simon Reynolds cercasse di teorizzarlo “inventandoselo” sulle colonne di The Wire, i Cul de Sac incidevano il loro primo album, "ECIM". È questo un album che fa della “reprise” il suo punto cardine, la sua forza traente: vengono infatti riprese le ritmiche marziali della kosmische musik di Can, Fast e Neu e i fraseggi di synth più astrusi di psichedelica memoria; il tutto puntualmente scomposto, profanato, stuprato da scompensi elettronici noiseggianti (detta all'italiana) che sembravano un incrocio tra la “caciara” bella e buona e il jazz malato di qualche chitarrista eroinomane.
Ma torniamo a quel magnifico 1996 pieno zeppo di interessanti proposte e di realtà più o meno consolidate (alcune addirittura già passate). "China Gate" sconta i rapporti diretti/indiretti con le tre corone del tempo (ricordo: Tortoise, Swans e Dirty Three), uscendone purtroppo ridimensionato.
Le proposte già iniziate da "ECIM" ci sono tutte, non vengono tradite e sempre su quelle si fa affidamento, sempre da quelle si prendono le mosse. Il cambio di batterista (esce dal campo col numero X Chris Guttmacher, entra col numero Y John Proudman) giova alla band, che ritrova una nuova energia e una nuova tensione nelle sfuriate krautrock già precedentemente accennate, alternate da momenti folk più dilatati, a volte al limite della staticità, puntualmente affossati e travolti da digressioni sintetiche, da una dannunziana onda che “sciacqua, sciaborda,/scroscia, schiocca, schianta,/romba, ride, canta,/accorda, discorda,/tutte accoglie e fonde/le dissonanze acute/nelle sue volute/profonde” (da questi versi pare chiaro che il poeta pescarese gradisse particolarmente "The Colomber", uno dei brani migliori di tutta la release, un perpetuo moto ondoso, un immenso cavallone che si carica di tutti i suoni e di tutte le dissonanze possibili prima di morire con clangore sulla battigia).
Tour de force ritmici, digressioni spaziali, dilatazioni folk; il tutto con estemporanei motivi orientaleggianti che la copertina, ingannevole, fa credere saranno il leitmotiv del disco (cosa che fortunatamente ci viene risparmiata). "China Gate" è la versione più matura di "ECIM"; è un disco in cui le varie influenze sono amalgamate con maestria e ponderatezza; sarebbe il loro miglior disco. Sarebbe, se poi un anno più tardi non avessero dato alla luce assieme al divo John Fahey "The Epiphany Of Glenn Jones". Ma questa è un'altra storia...
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