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R Recensione

6/10

Gionata Mirai

Allusioni

Tensione naturale sottesa in seno all’impalcatura del progetto Teatro Degli Orrori, con buona pace di chi ha sempre finito per insistere sull’aspetto puramente elettrico e mefistofelico del combo, è stata, tuttora è e nel futuro sarà la propensione all’evocazione: come un verso, una distorsione, un abbinamento cromatico possano scatenare, in ciascuno di noi, reazioni e sensazioni differenti. Dove la ricerca della verità fattuale ha portato il leader Pierpaolo Capovilla lo abbiamo visto tutti: dismessi i panni del solo citante maudit, capace di mettere assieme Scratch Acid, Demetrio Stratos e Carmelo Bene, si è rivestito di grazia interpretativa, esaltando, nelle poesie di Vladimir Majakovskij, la passione bruciante dell’impeto rivoluzionario, e donando loro il taglio seghettato, instabile, mutante dell’accompagnamento sonoro di Giulio Ragno Favero. Ecco perché, di un disco solista del primo chitarrista Gionata Mirai, interamente pensato e costruito in fingerpicking su una dodici corde acustica, non ci siamo granché stupiti: “Allusioni” non è altro – e altro, benintesi, non poteva essere – che un’ennesima espressione ambivalente del gruppo madre.

Partiamo dai pregi. Il migliore, senza girarci troppo attorno, è la brevità: nemmeno venticinque minuti, dipanati in cinque movimenti privi di nome, aiutano a stornare la prolissità che certi arrangiamenti, alla lunga, provocano. In questa accezione deve dunque essere incasellato il termine “hardcore” che il chitarrista ha utilizzato per descrivere il suo lavoro: “È veloce, breve, scarno nel suono, intricato nella costruzione, ma semplice nella tecnica che lo compone”. Tutto vero: anzi, se possibile, una frase che da sola vale più di mille recensioni. “Allusioni” è una cascata di note a getto continuo, piccole pennellate che s’incastrano le une nelle altre, molta concessione ad una severa armonia di stampo pienamente classico – se siete mai stati apprendisti o autodidatti, riconoscerete nell’approccio alla tecnica anche una certa influenza del Segovia meno didascalico – e poche, fugaci trasgressioni nella dissolvenza dissonante che Mirai ha fatto propria, mutuandola dal post-core americano (in “Allusioni #5”, nello specifico, si sente il marchio di fabbrica).

Qualora, poi, qualcuno avesse sperato in un disco più coraggioso che meditato, specialmente nella scelta delle timbriche e nel superamento di quegli orientalismi ormai incorporati, finanche inconsciamente, nel dna di ogni musicista acustico “moderno” (“Allusioni #3”, al riguardo, è eloquente), probabilmente rimarrà deluso dal colpo d’occhio generale. Certamente “Allusioni”, sebbene paghi il prezzo di essere una prima (quasi) assoluta sotto ogni forma, non è un passo falso: non almeno per chi ama gli intrecci, le matrioske, il tiro alla fune senza paletti spaziali definiti. Gli scampoli di sentimento genuino che traspaiono dagli armonici e dal crescendo arpeggiato di “Allusioni #4”, soffocano troppo spesso, tuttavia, sotto una coltre di rigore tradizionalista: una notevole disciplina che con una mano tranquillizza, ma con l’altra immobilizza.

Giunti a questo bivio, onestamente, ci saremmo aspettati di utilizzare altre parole.

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