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R Recensione

8/10

Kaki King

Glow

Come un guanto. D’acciaio. O di seta, a dir piacendo. Katherine si stringe in sé stessa ed in sé stessa – non nelle aspettative della critica, non nei gigantismi del mercato – trova la sua rinascita: umana, artistica, relazionale. Quante Katherine ci sono sfilate sotto gli occhi, in tutti questi anni? La ragazzina insicura, nerd, superstar della chitarra acustica: la co-artefice della semplicità miracolistica di Into The Wild; la “nuova” PJ Harvey; la donna matura, elettrica, rabbiosa. Il buio, infine. Una voragine personale e personalistica. Giravano strane voci, all’indomani di un “Junior” semplificato e, in verità, galvanizzante: Kaki King molla la spugna, Kaki King ha smarrito la bussola, Kaki King non ha più nulla da dire. And then I’ve become someone else, someone new. Basandosi su quella tagline incancellabile di “The Betrayer”, Katherine riparte dalla produzione rustica di James Goodwin – il making of che gira su YouTube è quanto mai esemplificativo – e da un quartetto d’archi, ETHEL, che l’accompagna in un muto carme dove, per la prima volta dopo tanto tempo, può contare solo su sé stessa. E su quella propaggine, la Lucille di una ragazzina lesbica di trentatré anni, che sfiora, strangola, accarezza, percuote. Con la stessa meraviglia di dieci anni fa, ed un bagaglio musicale alle spalle enormemente accresciuto.

Sta di fatto che “Glow”, sesto disco in studio di Katherine, ha la forza dirompente di una bomba. Suona come niente della produzione precedente di Kaki King. O meglio: si decostruisce come un puzzle, un incontro/scontro tra “due” King, la sbarazzina virtuosa dello strumento e la strumentista attenta alla consonanza delle parti. Il primo e l’ultimo periodo. “Glow” è un guanto premuto sulla bocca di una donna che rinuncia a cantare con le proprie corde per far cantare altre corde, terze, più nobili. È il maroso sonnecchiante di “Cargo Cult”, che si staglia torreggiante su un framework strumentale in crescendo discreto e perpetuo con alternanza sfavillante di arpeggi in minore e passaggi ritmati, mentre fuori piove. È il pifferaio alle porte dell’alba di “Bowen Island”, che fa rintoccare le proprie monodie, saldamente intrecciate l’una all’altra, come se fosse il primo direttore di un’orchestra di gamelan. È il blues “bianco” e melodico di “No True Masterpiece Will Ever Be Complete”, respiro armonico che si accoccola lì, in mezzo, come parte integrante di una soundtrack ancora da scrivere. È il menestrello indemoniato che suona con venticinque unghie e centoquaranta dita una “King Pizel” che, seppur sorretta da una furia chirurgica d’esecuzione (nemmeno fosse un John Butler d’Irlanda, verrebbe da dire), arriva insolitamente diretta. È la slide guitar indolente che riecheggia in “Marche Slav”: i valzer accennati, su duplice ricamo strumentale (accompagnamento e tema in un unico fluido movimento), di “Fences”; la tumultuosa corsa verso la fine, sospinta da una maestosa ed acuminata parata d’archi, di una bellissima “Great Round Burn”.

Katherine possiede un dono non comune per lo strumento che non ci facciamo certo meraviglia di scoprire, ora, dopo sei dischi. Al contrario dei primi passi, tuttavia, dove la sorpresa si limitava all’aspetto estetico e non veniva controbilanciata da un’adeguata capacità di songwriting (leggi: tecnicismo un po’ fine a sé stesso), oggi lo stile tentacolare della King è messo al servizio di canzoni che, peraltro, riescono persino ad evitare gli avvitamenti elettrici, non sempre integrabili nel genoma di base, di “Dreaming Of Revenge” e, soprattutto, di “Junior”. “Kelvinator, Kelvinator” ondeggia tra ritmi esotici e melodismi brit, i Suede baciati da Caetano Veloso, frantumandosi in due tronconi superbamente uniti da severe posture classiche: un brano nato singolo, che solo lateralmente lascia intuire la mostruosa difficoltà di coordinazione richiesta. Ciò nonostante, non serve giungere fino alla già citata “King Pizel” per avere piena evidenza della nuova forma che ha assunto lo “skill” di Katherine. “Holding The Several Self” gioca con gli armonici e con le giustapposizioni di note in un’incarnazione finanche canonica della strumentale acustica: “Streetlight In The Egg” aumenta la tensione con un uso creativo ed inusitato di legati e percussivi; il capolavoro “The Fire Eater” si denuda in tranche, come una piccola operetta per archi e chitarra (primo atto di madrilenismi in ouverture, secondo atto per un Segovia che scivola su frizioni impro-jazz, atto conclusivo con trionfo orchestrale martellato da tapping math, Antony tirato a lucido da Chicago), e si impone come un saggio imperforabile dell’altissima qualità compositiva raggiunta da Katherine.

Glow” è un guanto di sfida. Servono persone coraggiose, ora, in grado di raccoglierlo.

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 3 voti.
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fabfabfab 7,5/10
motek 8/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 7,5 questo disco) alle 10:26 del 4 gennaio 2013 ha scritto:

Bello, bello, bello. Io poi per una donna che fa delle cose del genere impazzisco

fgodzilla alle 11:19 del 4 gennaio 2013 ha scritto:

mamma mia ma sta roba partecipa alla classifica 2012 o va sul 2013 perche' prima di votare DEVO sapere

un disco per me da almeno 8.5

fabfabfab (ha votato 7,5 questo disco) alle 11:31 del 4 gennaio 2013 ha scritto:

l'album è del 2012, quindi va nella classifica del 2012

Marco_Biasio, autore, alle 11:46 del 4 gennaio 2013 ha scritto:

Ti capisco. Un peccato che non avessi scritto la recensione prima dell'uscita della classifica, perché questo entra comodamente nella mia nuova top ten... Grazie dei passaggi!

Lezabeth Scott alle 16:43 del 4 gennaio 2013 ha scritto:

Lei si che la fa cantare quella chitarra!

salvatore alle 20:48 del 4 gennaio 2013 ha scritto:

Molto perplesso...