Kaki King
Glow
Come un guanto. Dacciaio. O di seta, a dir piacendo. Katherine si stringe in sé stessa ed in sé stessa non nelle aspettative della critica, non nei gigantismi del mercato trova la sua rinascita: umana, artistica, relazionale. Quante Katherine ci sono sfilate sotto gli occhi, in tutti questi anni? La ragazzina insicura, nerd, superstar della chitarra acustica: la co-artefice della semplicità miracolistica di Into The Wild; la nuova PJ Harvey; la donna matura, elettrica, rabbiosa. Il buio, infine. Una voragine personale e personalistica. Giravano strane voci, allindomani di un Junior semplificato e, in verità, galvanizzante: Kaki King molla la spugna, Kaki King ha smarrito la bussola, Kaki King non ha più nulla da dire. And then Ive become someone else, someone new. Basandosi su quella tagline incancellabile di The Betrayer, Katherine riparte dalla produzione rustica di James Goodwin il making of che gira su YouTube è quanto mai esemplificativo e da un quartetto darchi, ETHEL, che laccompagna in un muto carme dove, per la prima volta dopo tanto tempo, può contare solo su sé stessa. E su quella propaggine, la Lucille di una ragazzina lesbica di trentatré anni, che sfiora, strangola, accarezza, percuote. Con la stessa meraviglia di dieci anni fa, ed un bagaglio musicale alle spalle enormemente accresciuto.
Sta di fatto che Glow, sesto disco in studio di Katherine, ha la forza dirompente di una bomba. Suona come niente della produzione precedente di Kaki King. O meglio: si decostruisce come un puzzle, un incontro/scontro tra due King, la sbarazzina virtuosa dello strumento e la strumentista attenta alla consonanza delle parti. Il primo e lultimo periodo. Glow è un guanto premuto sulla bocca di una donna che rinuncia a cantare con le proprie corde per far cantare altre corde, terze, più nobili. È il maroso sonnecchiante di Cargo Cult, che si staglia torreggiante su un framework strumentale in crescendo discreto e perpetuo con alternanza sfavillante di arpeggi in minore e passaggi ritmati, mentre fuori piove. È il pifferaio alle porte dellalba di Bowen Island, che fa rintoccare le proprie monodie, saldamente intrecciate luna allaltra, come se fosse il primo direttore di unorchestra di gamelan. È il blues bianco e melodico di No True Masterpiece Will Ever Be Complete, respiro armonico che si accoccola lì, in mezzo, come parte integrante di una soundtrack ancora da scrivere. È il menestrello indemoniato che suona con venticinque unghie e centoquaranta dita una King Pizel che, seppur sorretta da una furia chirurgica desecuzione (nemmeno fosse un John Butler dIrlanda, verrebbe da dire), arriva insolitamente diretta. È la slide guitar indolente che riecheggia in Marche Slav: i valzer accennati, su duplice ricamo strumentale (accompagnamento e tema in un unico fluido movimento), di Fences; la tumultuosa corsa verso la fine, sospinta da una maestosa ed acuminata parata darchi, di una bellissima Great Round Burn.
Katherine possiede un dono non comune per lo strumento che non ci facciamo certo meraviglia di scoprire, ora, dopo sei dischi. Al contrario dei primi passi, tuttavia, dove la sorpresa si limitava allaspetto estetico e non veniva controbilanciata da unadeguata capacità di songwriting (leggi: tecnicismo un po fine a sé stesso), oggi lo stile tentacolare della King è messo al servizio di canzoni che, peraltro, riescono persino ad evitare gli avvitamenti elettrici, non sempre integrabili nel genoma di base, di Dreaming Of Revenge e, soprattutto, di Junior. Kelvinator, Kelvinator ondeggia tra ritmi esotici e melodismi brit, i Suede baciati da Caetano Veloso, frantumandosi in due tronconi superbamente uniti da severe posture classiche: un brano nato singolo, che solo lateralmente lascia intuire la mostruosa difficoltà di coordinazione richiesta. Ciò nonostante, non serve giungere fino alla già citata King Pizel per avere piena evidenza della nuova forma che ha assunto lo skill di Katherine. Holding The Several Self gioca con gli armonici e con le giustapposizioni di note in unincarnazione finanche canonica della strumentale acustica: Streetlight In The Egg aumenta la tensione con un uso creativo ed inusitato di legati e percussivi; il capolavoro The Fire Eater si denuda in tranche, come una piccola operetta per archi e chitarra (primo atto di madrilenismi in ouverture, secondo atto per un Segovia che scivola su frizioni impro-jazz, atto conclusivo con trionfo orchestrale martellato da tapping math, Antony tirato a lucido da Chicago), e si impone come un saggio imperforabile dellaltissima qualità compositiva raggiunta da Katherine.
Glow è un guanto di sfida. Servono persone coraggiose, ora, in grado di raccoglierlo.
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