R Recensione

7/10

Andrea Dicò, Francesco Carbone

DC

Qualche dato illuminante (o almeno speriamo) su DC – che nel suo rievocare il nordest coprolalico e a monocolore vocazione governativa sintetizza invero le sole iniziali dei cognomi dei membri partecipanti, in combutta artistica nonostante la distanza siderale di quasi tredicimila chilometri che separa le loro residenze temporanee di Cape Town e Milano. Andrea Dicò (i più bravi e pazienti di voi lo ricorderanno già nella formazione de Il Babau & I Maledetti Cretini) mette mani e piedi a batteria, ammennicoli elettroacustici e samples: Francesco Carboni ci mette l’altra metà di folktronica concrète e, per il resto, traffica attorno a chitarra elettrica, lap steel e loop station. Una session d’improvvisazione nella seconda metà di dicembre 2018 in uno studio di Missaglia, senza overdub aggiuntivi: ecco pronta l’uscita n° 374 del catalogo audio di Setola Di Maiale.

Uno vorrebbe anche sbrigarsela in due parole o quasi, ma ogni elemento di “DC” sembra concorrere al ripudio del facile incasellamento. Nell’iniziale “Ossidiana”, ad esempio, stringhe quantistiche di americana hauntologica, sezionata al tavolo dell’anatomista boitiano, vengono stirate, decuplicate, poi nuovamente riassorbite, accelerate e mandate in reverse su di un triangolo elementare di arpeggi claudicanti, in una mimica post-industriale del primitivismo faheyiano: qualcosa che va oltre le colonne d’Ercole della Squadra Omega di “Lost Coast” e che, ne “Il Sogno Di Giulio”, si articola attorno a complessi frattali desertici (ottima la mano di Carboni) spezzati in sequenze chardbourniane. Nei quattro minuti di “Tralfamadore”, che collegano idealmente le due metà del disco, soundscape provenienti dal new world di Joe Meek (o da quello di Tetsuo?) stridono tra grumi di elettricità rappresa e catacombali apparizioni lustmordiane. Nel piatto forte della tracklist, la megalitica “Intergalactic Mechanical Workshop” (ventidue minuti e mezzo!), interferenze rumoristiche e strati di droni assordanti sono un pretesto formale che scontorna un complesso studio ritmico, la cui riproducibilità in pattern discernibili scema man mano che ci si avvicina a una coda di esaltante sferragliamento impro. Tutto attorno alla conclusiva “14B”, poi, aleggia un feeling particolare: parrebbe quasi di sentire una traduzione della rozza estetica poveristica dei Neptune (sì, proprio loro) in un flusso di tessere droniche i cui meccanismi anticlimatici siano settati sul modus operandi dei Necks (sì, proprio loro), una sorta di riedizione cosmica dei movimenti post-sinfonici di Michael Gordon.

Che dire di più? In hoc signo vicerunt. Disco tanto esigente quanto soddisfacente.

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glenn dah alle 15:32 del 2 giugno 2020 ha scritto:

Grazie Marco!