Yes
Tales from Topographic Oceans
Nel 1973 gli Yes, reduci dai gloriosi fasti di Close to The Edge e del triplo live Yessongs, danno alla luce quello che probabilmente rappresenta a tutt’oggi uno degli album di musica progressive più controversi e dibattuti, un lavoro dove l’aggettivo più ricorrente è stato ed è tuttora “ambizioso” inteso nelle sue accezioni meno nobili, ovvero “pretenzioso” o “autoindulgente”, stroncato ferocemente dalla critica alla sua uscita ma considerato al contrario un capolavoro da molti dei loro fans.
I disaccordi ed i contrasti di opinioni legati a quest’album, opera principalmente del cantante Jon Anderson e del chitarrista Steve Howe, vengono vissuti pesantemente anche all’interno della band, infatti il tastierista Rick Wakeman lascerà il gruppo prima della realizzazione del disco successivo, Relayer, ma paradossalmente proprio in quest’album sono contenuti alcuni passaggi alle tastiere tra i migliori della sua carriera; il batterista Alan White proveniente dalla Plastic Ono Band di Lennon & Ono, sostituisce invece proprio in quest’album e in maniera più che adeguata l’ottimo Bill Bruford, che aveva appena abbandonato il gruppo per unirsi alla corte del Re Cremisi.
Anderson spiega nelle note di copertina dell’album che l’idea dei quattro movimenti o suite, in cui è strutturato il disco, prende luce dopo la lettura del libro “Autobiografia di uno Yogi” di Paramhansa Yogananda, libro che descrive le quattro scritture shastriche della cultura mistica orientale che riguardano i molteplici aspetti della vita umana.
Sicuramente quindi un progetto importante, articolato e complesso, rischioso da trasporre in note evitando di sfociare nella pedanteria o nella prolissità.
La musica inevitabilmente rispecchia la complessità dell’idea di partenza, spingendo le sonorità della band verso i confini (ed i limiti) del rock progressive, dilatando i quattro brani fino alla durata di circa 20 minuti ciascuno, sfiorando in alcuni punti la monotonia, in altri la genialità, in particolare nel brano di apertura The Revealing Science of God, con i suoi intrecci vocali ed i suoi vari passaggi strumentali ora possenti ora rarefatti (si ascolti in particolare il fantastico assolo al Minimoog di Wakeman) e nell’ultimo Ritual, con la potente sezione ritmica di Alan White e con degli splendidi assolo al basso di Chris Squire, davvero superbo in questo disco, dove si raggiungono livelli di pura maestria.
Il terzo brano The Ancient è un brano dominato dalla slide guitar di Howe che si lancia in dissonanti e stridenti assolo dando vita ad un complesso e compatto muro sonoro di non facilissimo ascolto che alla fine collassa risolvendosi in pacate atmosfere acustiche tra le più ispirate del repertorio del gruppo.
Il secondo brano The Remembering invece è dominato dalle fluide tastiere di Wakeman e dalla voce di Anderson ed è forse l’episodio meno convincente del disco, dove si insinua una certa sensazione di noia: qui avrebbe giovato senz’altro una maggiore sintesi, anche se le parti corali alla fine di questo pezzo suscitano brividi di emozione.
Tales from Topographic Oceans, nonostante alcuni limiti, è quindi un album sicuramente ricco di spunti e di invenzioni sonore, e rimane uno dei più complessi ed articolati (oltre che dei più criticati) dischi di musica progressive di quel fertile periodo (penso a The Lamb dei Genesis, Starless & Bible Black dei King Crimson, In A Glass House dei Gentle Giant e, a proposito di dischi controversi, A Passion Play dei Jethro Tull…). Il suo punto debole risiede nella durata talvolta eccessiva dei brani che ne ostacola in parte la fruibilità e nella sua complessità e sovrabbondanza di idee che non lo rendono accessibile se non a coloro che abbiano orecchie ben allenate ad un certo tipo di ambientazioni e di sonorità.
“Nous Sommes Du Soleil, We Love When We Play..." canta Jon Anderson alla fine del disco, e su queste bellissime parole non possiamo non pensare all’ineluttabile destino che attende questo genere musicale di cui gli Yes hanno fatto la storia e che questo disco nel bene e nel male simboleggia… il ciclone punk e la febbre del sabato sera sono ormai alle porte con nuovi linguaggi e nuove lusinghe.
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