Genesis
Seconds Out
Non sono molto attratto dai dischi dal vivo. Di una canzone, o di un gruppo di esse, mi intriga inevitabilmente la sua versione primigenia, quasi sempre fatta nascere fra le quattro mura di uno studio discografico. Difficile che lascolto di una sua esecuzione in concerto riesca a superare il fascino, quasi labitudine al primo vestito portato, la personalità e caratterizzazione dei suoni e dellinterpretazione originali scelti per lanciarla sul mercato, esporla al pubblico giudizio e godimento.
Vi è leccezione, quando la veste concertistica della musica surclassa, in qualità e/o emozionalità, quella originaria. I grandi dischi di musica dal vivo possiedono questa virtù e Seconds Out è uno di questi. Entrando nel merito specifico, alla grandezza di questopera intercorrono, a mio parere, una serie di fattori che provo ad enunciare ad uno ad uno:
Il primo, e più decisivo, è la scaletta dei brani: pressoché perfetta. Il meglio del meglio della lussureggiante produzione di questa formazione nellarco dei sei migliori anni della sua esistenza. I tre album migliori di carriera (Foxtrot, Selling England By The Pound e A Trick Of The Tail) forniscono, correttamente, la grande maggioranza dei brani. Delle grandi canzoni che hanno fatto primariamente la storia del gruppo mancano solamente Watcher Of The Skies e Dancing With The Moonlight Knight.
Il secondo fattore mi sembra essere il suono, molto rotondo ed equilibrato ma soprattutto omogeneo. Le composizioni, provenienti da sei diversi album, diverse fasi evolutive del gruppo, diverse produzioni, anche diversi musicisti e cantanti, risultano piacevolmente omogeneizzati per il fatto di essere eseguiti uno dietro laltro dagli stessi cinque musicisti (tranne una doverosa eccezione, su The Cinema Show), nella stessa fase storica della formazione.
Vi è poi lo stile delle esecuzioni, sensibilmente ripulito e ridefinito rispetto alle versioni in studio. Specialmente le pagine più vecchie del repertorio godono della maggiore esperienza dei musicisti, della coesione di gruppo più affinata, dei ruoli interni più focalizzati e limpidi, dei suoni più indovinati messi a fuoco negli ultimi lavori. Esemplificativa a questo proposito è la riproposizione dellultima parte di The Musical Box, in coda a The Lamb Lies Down On Broadway: La Scatola Musicale apparve da subito come una grande canzone, ma sicuramente nella sua prima stesura in studio soffriva di una certa prolissità nella sua prima parte, e di suoni lo-fi specie per quanto riguarda chitarra e batteria. I suoi quattro minuti finali, ripresi in questo concerto sono pura magia: il preciso e pulito procedere della 12 corde elettrica di Mike Rutheford, senza flautini e abbellimenti di sorta come capitava nelloriginale su Nursery Cryme, crea la giusta anticamera per lavvento della liturgica progressione dorgano di Tony Banks, una delle sue intuizioni migliori di carriera, sulla quale poi si avventa la voce di Phil Collins, con prudente ma sufficiente energia.
A proposito di Collins, il discorso sulla voce è anchesso assai importante. Peter Gabriel possedeva/possiede corde di teatralità, drammaticità, intensità e carisma che il batterista neanche si sogna, ma cè un fatto da tenere in gioco: il Gabriel sul palco, nel periodo doro 1973-75, impegnato comera a cambiarsi di costume e soprattutto complicato ed impedito dalle incredibili maschere indossate, riusciva ad essere magnificamente spettacolare ma, alla resa dei conti, un bel po stonato ed impreciso. E se di un concerto si ascolta solo il disco, senza poter godere delle immagini e delle luci e della gente che se la gode conviene forse che al canto giostri questancora umile e attento Phil Collins, senza maschere e artifici di sorta, ancora lontano dallaver focalizzato le proprie effettive possibilità vocali, ma comunque già solido ed efficiente. Oltretutto, il suo stile vocale lineare e pulito, assai poco progressive e piuttosto pop (se ne vedranno purtroppo le conseguenze in futuro ) rende le interpretazioni del repertorio sicuramente meno magiche e mitiche e sovrumane, ma con una patina di solarità, di pulizia, di accessibilità che rende la proposta meno seriosa, più comunicativa, più rock. Il mix fra i quattro compassati strumentisti della buona società inglese e il più esuberante e sanguigno frontman funziona, toglie un bel po di snobismo allimmortale musica del gruppo e la rende più simpatica e terrena, un poco più schietta.
Dal punto di vista strettamente musicale, la possibilità di giostrare con la doppia batteria nelle fasi strumentali più lunghe e articolate (su Dance On A Volcano, Firth Of Fifth e soprattutto Los Endos e Cinema Show) costituisce a sua volta un cospicuo arricchimento di interesse. Sottoposti al doppio attacco percussivo, i brani perdono percettibilmente di magica, algida aura progressive, acquistando per tornaconto una tonificante, minima irruenza. Per quanto riguarda in particolare la splendida cavalcata in 7/8 di Cinema Show (quattro musicisti sul palco ad eseguirla: i due batteristi, Rutheford alla 12 corde e quindi al basso e Tony Banks alle tastiere. Hackett è a bersi una birra ) si bara leggermente, inserendo in tracklist una performance della tournèe dellanno precedente, per levidente tesi che la coppia Bill Bruford/Collins gestisca più efficacemente il pezzo rispetto a quella Chester Thompson/Collins. Thompson è batterista pulito, preciso, tecnico ma di scarsa personalità. Con lui la ritmica dei Genesis si garantisce efficienza e duttilità, ma zero estro. Il gruppo continuerà colpevolmente su questa linea, quando anche Hackett se ne sarà andato, prendendo un chitarrista a sua volta pulito, preciso, tecnico e duttile, ma zero personalità e zero calore: Daryl Stuermer = un chitarrista inutile. Che Steve Hackett stia per andarsene risulta chiaro, in questo disco, e non solo dal titolo (Il secondo è fuori, introducendo un appropriato apostrofo ): la sua chitarra è lasciata costantemente in secondo piano nel mix, e dire che il suo suono è sontuoso, con un uso degli echi e delle superdistorsioni creativo e ammaliante, la ciliegia sulla torta del formidabile impasto messo a punto dalla formazione.
Fotografia della fine di unera impagabile, senza ancora far intuire la svolta banalizzante che in capo a un paio di anni, e di album, farà perdere al gruppo quasi tutta la sua magia, Seconds Out sta a testimone di una breve ma magnifica stagione dei Genesis nella quale, avendo perso per strada il loro carismatico cantante, intesero appoggiare sulla musica, e solo su di essa, le proprie ambizioni e la propria voglia di stupire. Ci riuscirono ma poi ci ripensarono, ahinoi.
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