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R Recensione

7/10

Genesis

The Way We Walk Volume Two: The Longs

Old Medley” dura quasi venti minuti ed è il pezzo di apertura di quest’opera che comprende esecuzioni dal vivo catturate durante l’interminabile tournée successiva all’uscita dell’album “We Can’t Dance” del 1992. Malgrado la scaletta consti di soli sei brani tutti molto estesi (da cui il titolo), questa è l’unica concessione all’impagabile periodo progressive del gruppo, a beneficio oltretutto del solo pubblico europeo (i concerti da cui provengono le registrazioni sono londinesi), perché in America i tre titolari della formazione si sono sempre guardati bene dal riaprire quelle loro gloriose pagine, preferendo dare al pubblico d’oltreoceano, non appena agguantato il largo successo da quelle parti ad inizio anni ottanta, un’immagine compatta e iper accessibile di gruppo pop a tutto tondo, senza “stranezze” e variazioni stilistiche che avrebbero potuto disturbare le disimpegnate orecchie dei loro nuovi fans.

Fa specie in proposito che il tastierista Tony Banks abbia a suo tempo più volte dichiarato che “…finalmente, con le nostre composizioni pop, anche le ragazze si sono appassionate alla nostra musica”. Sciovinismo ed edonismo a iosa quindi, a imbarbarimento dell’obiettivo artistico, passato dal piacere di fare musica al piacere di piacere (alla maggior parte di gente possibile). E se ciò appare abbastanza prevedibile per l’ex “proletario” Phil Collins, estroverso frontman sin da bambino quando già calcava le scene dei teatri, poi adattatosi di buon grado e ottima tecnica al progressive entrando in formazione nel 1971, ma in seguito ben felice di ritrovarsi nuovamente al centro del palco a intrattenere la gente senza troppe storie difficili ed eccentriche, suona invece molto forzato nei casi degli ex rampolli di buona famiglia Tony Banks e Mike Rutheford, due purissimi progressive men dall’aspetto inevitabilmente serioso e professorale i quali, tanto per dire, non si capisce come non si annoino, da venticinque anni a questa parte, a strimpellare semplici progressioni di accordi, senza il minimo rischio, senza la minima avventura, in un ruolo assai sbilanciato in favore del loro assai più celebre socio, il quale costantemente sotto i riflettori si diverte di sicuro molto più di loro, finendo per fare pure la figura del capo anche se non è vero.

Vabbè, l’“Old Medley” in questione mette comunque insieme i seguenti temi:

_La prima parte di “Dance On A Volcano” (dall’album “A Trick Of The Tail”, 1976)

_“The Lamb Lies Down On Broadway” (dall’album omonimo, 1974)

_La parte finale di “The Musical Box” (da “Nursery Cryme”, 1971)

_La parte strumentale di “Firth Of Fifth” (da “Selling England By The Pound”, 1973)

_”I Know What I Like” (ancora da “Selling England By The Pound”, 1973)

Sempre emozionante ascoltare l’irrompere dell’impianto iniziale della danza sul vulcano, con le sue amplissime escursioni di chitarra solista sugli stacchi di batteria, attraversati dallo scampanellante arpeggio di 12 corde e dalle terremotanti frequenze della pedaliera di bassi. Risulta però un poco forzato il passaggio dalla marcia in sette ottavi che caratterizza questa canzone, squisitamente progressive, al virtuoso arpeggio di pianoforte a mani sovrapposte che introduce l’Agnello di Broadway.

Solida e volitiva la voce solista a questo punto, con Collins colto nella sua fase di carriera più performante e potente ai microfoni, veramente a suo agio ad urlare le parti alte di strofe e ritornello. Sospetto comunque che i cori di armonizzazione al suo canto solista siano stati aggiunti in studio, suonando del suo stesso timbro e solidità, fuori portata rispetto allo scarso talento canoro dei suoi compagni. Come già si aveva avuto modo di ascoltare nel precedente, famoso live album “Seconds Out” (1977) che presentava questa stessa successione, è squisita arte il dolce passaggio dal trotterellante pianoforte di “The Lamb…” al metodico ed ispirato incedere di chitarra dodici corde che fa da preludio alla parte finale di “The Musical Box”.

In quest’occasione la riproposta è, se possibile, ancora più suggestiva, forse per i suoni ulteriormente migliorati, o piuttosto perché “Pluto” Rutheford viene lasciato per diverse battute proprio da solo colla chitarra e condisce la sua esecuzione salda e sicura con appropriate esitazioni e libertà ritmiche, anche dopo essere stato raggiunto da Collins al canto delle prime strofe. Quando poi si innesta l’immortale progressione di organo del geniale Banks, oggi come sempre i peli del corpo formicolano, la magia si rinnova inevitabilmente, il crescendo sinfonico, ritmico, vocale spazza via qualsiasi precedente e successiva canzonetta per assurgere a momento supremo del concerto. Phil urla i mitici “Now! Now! Now! Now! Now!” gabrielliani a squarciagola e poi vola dietro la sua batteria, a riposare per qualche minuto la voce.

La seguente parte centrale, e strumentale, di “Firth Of Fifth” è infatti riproposta, come sempre da quando Peter Gabriel è stato sostituito sul palco dal… batterista Chester Thompson, col doppio impianto percussivo, acquistando in tal modo una dimensione ritmica ricchissima. Collins a destra e Thompson a sinistra dell’immagine stereo picchiano forte e preciso, mentre Banks esegue il suo ben noto e vorticoso arpeggio di sintetizzatore, per poi lasciare il proscenio al modesto Daryl Stuermer. Costui ha il vizio, come buona parte dei chitarristi della sua razza (razza fusion), di suonare troppo, e “piatto”. Incapace di “entrare” nelle note eseguite, dando loro diversa enfasi e tocco, sempre in anticipo sul tempo per incontrollabile urgenza di suonare, questo musicista incolore costituisce un grave errore (ok, non il più grave!) nel percorso artistico dei Genesis. Fu scelto a suo tempo da Rutheford e non ho idea di cosa vi abbia trovato di speciale se non, per assurdo, l’assoluta mancanza di personalità, la quale lo rendeva adatto a replicare le partiture del dimissionario Steve Hackett senza condirle di nuovi sapori. Il risultato però è che non c’è più sapore, né nuovo, né hackettiano, quando è la chitarra solista a condurre il gioco: l’immortale assolo di “Firth Of Fifth” viene banalizzato dal prode Stuermer, che percorre grosso modo la partitura di Steve ma in maniera sciatta, e piatta, per poi prendere ogni tanto la tangente con inutili mitragliate di note sporche. Mediocre davvero.

Un effettone larsen di Daryl costituisce il ponte verso l’ultima pagina del medley, un’abbondantissima versione di “I Know What I Like” condita di parecchie altre cose poco coinvolgenti, specie su disco. Nell’ordine: il reiterato zompettare con presa a calci del tamburello da parte di Collins, la marcetta robotica e in fila indiana, in mezzo al palco, dello stesso cantante insieme ai due chitarristi (bah), gli accenni vocali a “That’s All” e “Illegal Alien” (entrambe del repertorio recente, quindi a ben vedere poco pertinenti ad un medley di vecchie cose…), nonché “Your Own Special Way” e “Follow You, Follow Me”, rispettivamente le nette cadute di tono di “Wind And Wuthering” (1976) e “…And Then We Were Three” (1978). Si indugia in particolare sulla seconda delle due, vera canzone simbolo nella loro carriera costituendone il primo grosso successo pop. La particolarità, a mio giudizio, di questo brano è quello di avere cose ottime e pessime fuse insieme in una curiosa specie di aborto musicale: ottimo è l’impianto ritmico chitarristico, con tanto di flanger ed eco ribattuto, inventato da Rutheford (un suono e uno stile di cui poi abuserà a lungo con il suo side project Mike & The Mechanics), ottima la solita banksiana progressione di accordi di organo. Strapessimi invece sia la melodia vocale di Collins che il testo.

A questo punto l’“Old Medley” è pressoché finito, il tempo per un accenno all’antica “Stagnation” (da “Trespass”, 1970) e per un’ultima strofa di “I Know What I Like” e si arriva alle rullate conclusive e al tripudio dei londinesi presenti. Il contentino dei Genesis anni ’90 agli originari loro sostenitori nei difficili e intensi anni ‘70, mentre senza il minimo rimpianto si dedicano ineffabili a ben altra musica e ben altro pubblico, è tutto qui.

Degli altri cinque brani di questa raccolta c’è poco da dire, appartengono come già accennato al repertorio pop e sono tutti ben penalizzati dall’uso massiccio della batteria elettronica, un espediente resosi utile al trio in fase di composizione e di prova, più precisamente per sollevare Collins dai suoi doveri percussionistici e consentirgli di improvvisare e mettere a fuoco le linee vocali, ma d’altro canto rivelatosi di un’invadenza e di una banalità (e di un “fuori moda”, possiamo dirlo, da molti anni a questa parte) avvilenti.

Fra essi è compreso comunque l’ultimo capolavoro di carriera della formazione, quella “Fading Lights” (da “We Can’t Dance”) che inserisce fra seconda e terza strofa lunghi ed emozionanti minuti di ciclopico assolo di Banks ai sintetizzatori, accompagnato dai soli Collins alla batteria “vera” e Rutheford alla chitarra: è la stessa situazione in trio della vetusta e gloriosa “The Cinema Show” (da “Selling England By The Pound”), con risultati non esattamente paragonabili ma comunque esaltanti. Non è una riproposizione del progressive di una volta, è invece musica strumentale e vocale di altissima classe e ispirazione, con batterista e tastierista in fulgida luce. Si può dire che sia l’esempio pratico di come si sarebbero potuti evolvere i Genesis dopo gli anni settanta senza dover perdere dignità e faccia, continuando a produrre sopraffine pagine strumentali intercalate da convincenti melodie vocali, senza assolutamente rimanere alle irripetibili favole settantine, evolvendosi e non banalizzandosi. Che peccato.

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magma 6/10
alekk 5/10
datrani 7,5/10

C Commenti

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TheManMachine (ha votato 6 questo disco) alle 10:47 del 21 agosto 2008 ha scritto:

A me sembra un disco un po' superfluo. Nel momento in cui i Genesis avevano sterzato in modo deciso e irreversibile verso il pop, hanno voluto riproporre i primigenii fasti prog. Ne è venuto fuori un ibrido con momenti affascinanti ma di cui nel complesso non si sentiva il bisogno. La recensione è come sempre molto particolareggiata e interessante, soprattutto per i dettagli tecnici, complimenti vivissimi! (ci sono a volte dei periodi un po' troppo lunghi, secondo me, che affaticano la lettura, se potessi tenerne conto Pier Paolo per la prossima recensione... gracias!)

Paranoidguitar (ha votato 6 questo disco) alle 15:00 del 22 dicembre 2008 ha scritto:

disco superfluo, concordo. recensione bella, ma un po' lunga.

DucaViola (ha votato 2 questo disco) alle 7:34 del 21 luglio 2009 ha scritto:

perché questo è un disco dei Genesis?

Bellerofonte (ha votato 3 questo disco) alle 14:16 del 28 aprile 2010 ha scritto:

oscenità

davvero.. non ci sarebbero altre parole

magma (ha votato 6 questo disco) alle 19:47 del 29 febbraio 2012 ha scritto:

Io il medley lo detesto con tutto il cuore. Comunque meglio del volume "Short".

Truffautwins (ha votato 2 questo disco) alle 16:40 del 6 febbraio 2014 ha scritto:

due di stima

andrea-s (ha votato 3 questo disco) alle 11:06 del 7 febbraio 2014 ha scritto:

Anche secondo me i Genesis muoiono nel 1975.

gianni m (ha votato 1 questo disco) alle 14:03 del 12 marzo 2016 ha scritto:

per la phil collins band voto 1 ma volevo mettere zero spaccato