Emerson, Lake & Palmer
Emerson, Lake & Palmer
Nel 1969 la nuova sensazione inglese in ambito rock si chiamava King Crimson, quattro musicisti molto bravi originali e preparati, con un suono potente e coeso ed uno stile personale, maturo sin dall’album di esordio allora appena uscito. Tutti ne pronosticavano la più radiosa delle carriere ma l’inopinata, contemporanea defezione del polistrumentista e compositore Ian McDonald nonché del batterista Mike Giles, all’indomani della prima tournèe americana, rimisero tutto in discussione.
Anche perché il cantante e bassista Greg Lake ci avrebbe poi messo solo un attimo a cambiare aria a sua volta, attirato da una certa proposta…
Il grande tastierista Keith Emerson faceva infatti la corte a Lake da tempo, intuendo che il proprio approccio musicale, molto tecnico e spettacolare ma privo di vera accessibilità commerciale e vocalmente e liricamente inadeguato, necessitava di inputs da esperienze musicali di tutt’altro tipo. Ad esempio quelle di un grande e solido cantante dal timbro stentoreo e dall’estro compositivo ben orientato al rock ed al pop, adeguato complemento alle fughe di pianoforte, alle rivisitazioni classiche, ai lunghissimi strumentali a lui peculiari. Uno come Greg Lake, appunto.
E così fu, il disco di esordio di Emerson Lake & Palmer suona esattamente come una mistura dei King Crimson con i Nice (il vecchio gruppo di Emerson), ed il poco tempo ancora trascorso insieme fa sì che i due “ingredienti” non siano in effetti mescolati: l’album mette insieme robusti affreschi strumentali emersoniani (“The Barbarian” in apertura, ispiratogli da Bartok, la suite in tre movimenti “The Three Fates” in cui Lake è in pratica assente, lo sperimentale “Tank” con un lungo assolo del batterista Carl Palmer), con due grandi ballate che il buon Lake si era trascinato direttamente dalle sue ultime prove con i King Crimson.
Due grandi canzoni dominate dalla splendida voce ma ad entrambe delle quali Emerson dà il suo mirabile valore aggiunto: in “Take A Pebble” crea un incipit ben stravagante, sfregando le corde del pianoforte con un plettro, e dopo le prime due strofe cantate prende in pugno il brano con una brillantissima variazione pianistica a fuga sull’impianto melodico del pezzo. Ci si dilunga assai perché poi al pianoforte subentra la chitarra acustica di Lake, a lungo solitaria e mixata bassissima alla maniera di “Moonchild” (da “In the Court Of The Crimson King”) prima di divagare in una specie di country e farsi riassorbire dal pianoforte per un’ultima, gloriosa strofa.
In “Lucky Man” il tastierista resta fuori dei giochi per tre quarti del brano mentre Lake giostra da par suo con l’acustica ed il mirabile ritornello armonizzato, sovraincidendo la sua romantica ed enorme voce ma poi Keith si inventa, in coda al pezzo, niente di meno che il primo grande assolo di sintetizzatore della storia!
Un suono mai sentito prima, gelido e sinuoso, esordisce con note superbasse per poi impennarsi ed avvilupparsi, fischiare e ridursi a un inquietante soffio elettronico. Cose che al giorno d’oggi non impressionerebbero nessuno (ci hanno pensato soprattutto gli anni ottanta a propagandare fino alla noia le potenzialità dei sintetizzatori), ma a quel tempo la maggior parte degli ascoltatori di “Lucky Man” riteneva senz’altro che questo assolo fosse eseguito con una chitarra elettrica…
Il synth è usato anche in altri momenti del disco specie in “Tank”, cosa che fa di questo lavoro l’inequivocabile pioniere di questo strumento nel campo della musica di grande diffusione. Aveva in realtà già fatto capolino in altre produzioni (in “Abbey Road” dei Beatles ad esempio) ma non con l’autorità, l’imponenza qui dispiegate. Keith Emerson ne è stato il grande, vero e affascinante divulgatore ed ancor oggi ne sconta il ruolo costringendosi a portare sul palco il vero e proprio baraccone costituito da quella pionieristica macchina, piena di cavetti e di manopole, precaria e inaffidabile ma inevitabilmente legata al suo musicista pigmalione.
Una traccia del disco non ancora citata è “Knife Edge”, buon esempio di assai accessibile contaminazione fra rock e musica classica: un riffone ed un cantato aggressivo di Lake (à la “Schizoid Man”) vengono incrociati con spunti organistici debitori di una sinfonietta di Janaceck, per quello che è il primo vero sforzo di gruppo e ne sintetizza effettivamente gli intenti: smagliante rock da arena irrorato da spunti classicheggianti e bel cantato melodico.
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