Jethro Tull
Minstrel in the Gallery
Quasi ogni opera dei Jethro Tull, dal primo apparire, divenne suo malgrado l’epicentro di diatribe sollevate da una critica perennemente controversa, smaniosa di bollare la band come appartenente o meno alla corrente prog tout court: ansie che Ian Anderson non tardò a placare, di album in album, sottraendosi alle rigide e sterili etichette, musicalmente ribadendo come i Jethro Tull fossero una realtà a sé stante, originale nella personalissima fusione di generi diversi, dalla classica al folk, dall’hardrock al prog fino al jazz. Puntualizzazione che si concretizzò in un sound ed uno stile peculiare e ascrivibile a loro stessi soltanto.
Ed in errore erano coloro che li avevano impietosamente e prematuramente destinati, dopo il successo di “Thick as a brick”, ad un’”aurea mediocritas”: fu “Minstrel in the Gallery” a sfatare questa convinzione. Più complesso e meno fruibile dei precedenti nell’audace combinazione di rock ( hard o prog ma indiscutibilmente rock), musica sinfonica, folk e acustica, dal punto di vista delle liriche l’album è forse il più introspettivo (quando non diventa autobiografico) dell’intera produzione del gruppo, o sarebbe più corretto dire di Anderson stesso, menestrello accentratore che ne divenne l’indiscusso sovrano dall’uscita di “Aqualung” in poi.
Registrato quasi interamente nella “Maison Rouge Mobile”,bizzarro mezzo di trasporto attrezzato a studio di registrazione ambulante con tanto di violinisti e violoncellisti al seguito, nel corso di un lungo viaggio dall’Inghilterra a Monaco, l’Lp si apre col brano eponimo, ottimo ensemble di chitarra acustica, flauto ed archi in un’amalgama (di tanto in tanto un po’ eccessivo e ridondante) di arrangiamenti hard e prog. Ma sono in brani atti a formare quasi un unico capitolo come “Cold wind to Valhalla”, escursione nella mitologia nordica e “Black satin dancer”, sommessa e velata descrizione di un amplesso, che il talento compositivo di Anderson si esplica al meglio nell’abilità di coniugare elementi acustico-orchestrali con strutture folk prog, in un’equilibrata e camaleontica diversificazione melodica.
”Requiem”,struggente ballata acustico-classicheggiante, tenero e amaro flash-back della fine di un amore che protrae la finezza delle scelte stilistiche e la delicatezza delle liriche nell’ulteriore ballad “One White Duck/Nothing at all”, composizioni dal sapore folk-cantautoriale, pause intimiste e meditative che si faranno da parte per lasciare che la suite quadripartita “Baker Street Muse” ( Pig me and the whore,Nice Little Tune,Crash-Barrier Walzer, Mother England Reverie) dipinga senza troppo candore né indulgenza, squallidi e grotteschi tabloid di vita metropolitana.
Ma protagonista è comunque la maestria del colorito tocco di Ian Anderson disilluso ed ironico ritrattista che capta in variegate sovrapposizioni armonico-stilistiche, miserie e mediocrità umane, disinvoltura e talento capaci di emergere anche in brevi attimi di poesia in note, come gli squisiti 50 secondi di “Grace”, garbato epilogo del lavoro di una band che non ha mai ripetuto sé stessa, istrionica a dispetto dei sentimenti e delle reazioni contrapposte che l’hanno sempre accompagnata, magari più affievolita in taluni paragrafi della sua carriera ma tuttavia personalissima e sui generis nel panorama musicale moderno.
L’esibizione live a Montecarlo sancì la versione definitiva di “Minstrel in the Gallery” nonché la dipartita del bassista Jeffrey Hammond-Hammond riacceso dalla fiamma per la sua antica passione e attività: la pittura. E a lui Anderson ha voluto dedicare l’edizione rimasterizzata dell’album che nel 2002 ha vissuto una seconda rinascita negli storici Abbey Road Studios e arricchito di ottime bonus-tracks ( “Summerday Sands”, “March the Mad scientist, Pan dance e due registrazioni live di “ Minstrel in the Gallery”e “Cold Wind to Valhalla”).
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