Shearwater
Rook
Dal fiume Okkervil il puffino ha spiccato il volo e ora canta assediato dai corvi. Jonathan Meiburg, tastierista degli Okkervil River, nel 2008 ha definitivamente lasciato la band di Will Sheff per dedicarsi agli Shearwater, diventati, grazie all’eccellente “Palo Santo” del 2006, da side-project a realtà autonoma ormai svincolata dal gruppo di partenza.
Il quinto lavoro degli Shearwater conferma quanto di buono proponeva il disco precedente: la ricca strumentazione e le sonorità iper-curate, nell’ambito di un rock malinconico dalle sfumature folk, vengono di nuovo calate in testi pregni di un simbolismo naturalistico davvero evocatico, in grado di lanciare le canzoni sopra prospettive aeree e mitiche che mettono assieme Talk Talk e Radiohead, fino ad addentrarsi nelle roots americane più profonde.
La voce di Meiburg, sempre più sicura di sé, è capace di dare molteplici sfumature ai brani, passando da un timbro sussurrato e autistico (tanto da rendere inintelleggibile, qua e là, il suono delle parole) a un’intonazione epica e stentorea. Ne risultano melodie arabescate, piene di sali e scendi, che guidano in modo sregolato il percorso dei brani, in una sorta di schizofrenico dondolamento tra fragilità e potenza. E i testi, immaginifici e arcanamente cupi, danno sostanza.
Esemplare “On The Death Of The Waters”: il piano accompagna le parti tra falsetto e bisbiglio, mentre un folto insieme di strumenti, improvviso e roboante, carica l’intermezzo centrale. Stessa tecnica in “Lost Boys”, che attacca come folk drakiano e termina con una batteria marciante e fiati okkervilliani. Il sound degli Shearwater è da sconfinato paesaggio americano, ma rimane, a differenza di quello sghembo e ubriaco di Sheff & Co., più grave e levigato. Montagna, più che terra.
La sola vera pecca di questo disco è la sua brevità. Dieci pezzi in tutto, di cui uno puramente noise (“South Col”), e alcuni dei quali sventuratamente brevi, che lasciano come abortito uno slancio promettente: “Century Eyes”, unico momento propriamente rock, abbandona dopo soli due minuti la sua coinvolgente cavalcata, condita da una chitarra ruvida e da urletti alla Arcade Fire che ne fanno una piccola perla filo-canadese. Ci sono anche troncamenti opportuni, se non provvidenziali, nella musica (come concepire una “Song 2” di quattro minuti?). Non questo.
Certo, in nemmeno quaranta minuti gli Shearwater riescono a creare momenti davvero emozionanti, tra i più intensi ascoltati in questo 2008: stupenda “Rooks”, sostenuta da un fraseggio di chitarra ciclico e pulito, da un basso rotondo, e poi fatta librare da un memorabile assolo di tromba.
Più ancora che negli episodi pilotati dal piano (“The Snow Leopard”, la più elegiaca “The Hunter’s Star”), a scavare un solco sono i pezzi di base chitarristica (“Leviathan, Bound”, che riesce ad essere epica pur senza batteria, i sette minuti di “Home Life”). È quest’ultima il vertice del disco: attacco brumoso alla Nick Cave, batteria scura e rozza, straordinaria ricchezza strumentale (impeccabili gli interventi degli archi e del glockenspiel), melodia deliziosa, testo favolistico tra leggenda e sogno (“you were tracing the lines of a globe with your fingers: cool rivers, white wastes, desert shores, the forest green and a limitless life in the breath of each tide, and the bright mountains rising”). Livello superiore.
In un mare di proposte, spesso prive di una propria identità, gli Shearwater hanno imparato a farsi riconoscere, e non è cosa da poco. Il loro folk-rock ha il nero del corvo e il verde delle foreste, e si distende lontano dalle città e dalle loro storie. Ma, più che evasione, è discreta (e toccante) introversione. Ciò che fa di “Rook” un disco non facile, ma prezioso.
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