Talk Talk
Laughing Stock
Credo che anche i più distratti ormai abbiano scoperto che i Talk Talk non furono soltanto un gruppo pop, nato in seno a certe pieghe faciline degli anni ’80, e che ebbe il suo massimo momento di gloria in singoli come Such a shame o It’s my life. I Talk Talk furono molto di più, specialmente quando, invertendo e sovvertendo i soliti percorsi commerciali, diventarono una band underground, prevalentemente strumentale e poco avvezza a sfornare ulteriori successi da alta classifica. Verso la fine di quegli anni, prima che gli ingranaggi del music business li dimenticasse del tutto, la band di Mark Hollis compose due album (Spirit of Eden del 1988 e Laughing Stock del 1991) di una bellezza incontaminata e descrivibili con un solo aggettivo: splendidi.
Noi, in rispetto all’asse temporale che abbiamo preso in esame, tratteremo qui del solo lavoro del 1991, ma il consiglio di reperirli entrambi è sottinteso. Avvolgenti dilatazioni sonore, valicate spesso da un etereo suono di tromba, sorrette da una nutritissima sezione d’archi. I fantasmi di Miles Davis (o dovrei dire di In A Silent Way?) e di Gershwin appaiono, sornioni, qui e lì felici di vedere la messe sofisticata raccolta, frutto del loro geniale seme. Altrove solitari blues, in una sobrietà quasi religiosa, pian piano si discostano dai loro antichi archetipi per volgersi, timide, verso inusitate ritmiche e attraverso laceranti e dolenti squarci chitarristici.
Organo e piano lambiscono la melodia, come dovesse accarezzare un biondo campo di grano. La batteria, sulle prime, sembra provenire da una strada secondaria di New Orleans dove suona un’orchestrina jazz.Ma all’improvviso accade qualcosa di imprevisto e si scuote farneticante ed esagitata. Poi torna la calma. In questo rincorrersi lento di onde sonore, la voce di Hollis interviene con parsimonia, ma con toccante e sofferta profondità.
I Talk Talk sono la trasfigurazione di quello che furono. Sono la sublimazione di un gruppo pop: sono l’essenza alla quale si continua ad ispirare ogni artista che vuole creare atmosfere inattaccabili dallo scorrere del tempo. Un ensemble aperto, mai più disposto ad accettare compromessi. Non a caso Laughing Stock sarà il canto del cigno. Tutto è così semplice in sé, ma il disegno su tela, alla fine, è invece così finemente tessuto da essere unico. Mark Hollis & co. fanno propria la lezione di David Sylvian (che incredibilmente anni e anni dopo, li citerà nell’intensa Midnight sun) e ne rendono irregolari i contorni, imparando a dosare gli elementi e a dar vita a canzoni che sanno di vecchio (appunto l’esperienza del blues) ma che inventano, nota dopo nota, un mondo nuovo. A volte cristallino ed impalpabile. Altre volte, molto più concreto e turbato da passaggi più torbidi che farebbero “sentire come a casa” il genio inquieto di Tom Waits (specialmente quello di Swordfishtrombones), qualora si trovasse a vagabondare da queste parti.
Ma la forte valenza della spiritualità laica che accompagna Laughing stock, fa si che questo più che un lavoro di perdizione sia sostanzialmente un canto infinito di redenzione. E di ascesi. In alto, verso il sole. Fino a non tornare più. Per fortuna tra i loro seguaci ci sia stato un certo Steven Wilson che in piena armonia con il suo “soul-brother” Tim Bowness, abbiano reincarnato questo Spirito dell’Eden in album come Returning Jesus (2001) e Together We’re Stranger (2003).
[Recensione originaria apparsa sul magazine Wonderous Stories.]
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