R Recensione

7/10

The Spook of the Thirteenth Lock

The Spook of the Thirteenth Lock

E' soprendente percepire come il panorama folk indipendente, da una nazione all'altra, possa cambiare identità e suoni in maniera così profonda e marcata; e questo esprimendosi in uno stile che inequivocabilmente, nei testi piuttosto che negli arrangiamenti o nelle stesse architetture strumentali, risulterà spesso un'esaustiva espressione - in forma semplice e spesso orecchiabile - dell'intreccio di non pochi fattori, tra cui cultura, tradizione, e tematiche insomma proprie di uno specifico contesto sociale.

Ma attingere dalla tradizione e rielaborare in chiave contemporanea, e farlo in modo coerente e innovativo allo stesso tempo, non è di per sè impresa facile. Ancor meno lo è in Irlanda, terra di forte identità storica, a oggi pesantemente influente anche solo a livello di mentalità collettiva. Ma proprio la musica, in questa terra, è essenza della tradizione stessa, e tale è destinata a rimanere grazie soprattutto alla piena partecipazione popolare: l'artista di strada è di regola seguito e sovvenzionato da un pubblico più che mai abituato a esibizioni folk/cantautorali/popolari, che ne accompagnano le normali serate nei normali locali.

Tutto questo allora gioca come un'arma a doppio taglio nell'emergere di una band irlandese: la gente è per natura molto accomodante e propensa all'ascolto, ma per contro, essendoci abituata, è certamente anche più esigente della media.

In un panorama indipendente quindi già florido, si inseriscono nel 2008 i dublinesi The Spook of the Thirteenth Lock, pubblicando il primo e omonimo album. E lo fanno giocando la rischiosa carta dell'ambivalenza: musicalmente conservatori e riformisti allo stesso tempo, ci propongono per l'appunto un lavoro che da una parte mantiene inalterati certi canoni delle sonorità tradizionali, come ben si nota dalla prima traccia, The Hare - collocandosi grossomodo, per intenderci, nell'albero dei discendenti della macrofamiglia Pogues - ma dall'altra prende spunto da molte altre scuole, dando origine a un suono ricco di positive influenze (vedi, ad esempio, l'utilizzo di uno strumento tipicamente portoghese come il cavaquinho) il cui insieme, frutto di un non facile lavoro di attualizzata rielaborazione, conferisce al gruppo un'identità fresca e potenzialmente nuova: il folk regna ma non è dittatore, lasciando democraticamente spazio a passaggi più che vagamente progressive, e nondimeno ad un rock elettrico anche piuttosto aggressivo nei momenti giusti. Ciò rende possibile una convivenza, sulla carta non facile, tra strumenti acustici tradizionali e zampate elettriche più contemporanee, e tempi pari e dispari si danno fraternamente il cambio con fluidità e orecchiabile naturalezza.

La voce e le melodie, come l'antica scuola insegna, girano e ricamano in abbondanza intorno a una tonalità che spesso rimane la stessa dall'inizio alla fine: il giro d'accordi in sè è poco utilizzato, ma sempre scelto con un certo gusto. Il timbro vocale di Allen Blighe (voce, chitarre e banjo) a tratti può somigliare a quello di un Vedder più timido e acerbo, ed è pulito, lineare e accademicamente molto intonato, anche se per la verità a volte un po' statico e a tratti dissonante rispetto a cavalcate strumentali più spinte: seconde voci e controcanti sono frequenti e si avvalgono di scelte melodiche spesso felici, ma l'impressione è che vocalmente parlando si potrebbe osare qualcosa in più - anche dal punto di vista dell'interpretazione - e sembra quindi che il cantato scelga di mantenersi a prudente distanza di sicurezza rispetto allo strumentale, che più spavaldo si occupa di aprire la strada. Discorso differente per l'ultimo ispirato brano dell'opera, The Ragged Rock, la cui prima metà è invece un lungo e riuscito assolo vocale che si assume il compito di introdurre il successivo rombante climax strumentale, che andrà a chiudere il disco con slancio ed estro notevoli, confermando quindi la buona impressione maturata nel corso di tutto l'ascolto.

L'idea quindi è di avere a che fare con un gruppo certo un po' acerbo ma potenzialmente brillante, in grado di dire la propria con personalità distinguendosi in un ambiente non certo privo di concorrenza di qualità, e sarebbe un peccato se rimanessero conosciuti unicamente entro i confini della loro verde, piovosa e musicalmente illuminata isola.

Spero quindi che il mio breve soggiorno a Dublino possa in futuro risultare utile a qualche volenteroso cristiano che decidesse di avvicinarsi alla loro musica.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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rosinka 10/10
target 6/10

C Commenti

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target (ha votato 6 questo disco) alle 21:09 del 7 settembre 2009 ha scritto:

Mai stato in irlanda e mai ascoltato celtic-rock o irish-rock o quel-che-se-ghe-dise (i Pogues, però, loro sì). Ma, insomma, gli irlandesi sono istintivamente simpatici. Raramente capisco quel che dicono, ma pace. Grazie emash per il suggerimento!