Okkervil River
Down the River of Golden Dreams
Credo che uno dei maggiori pregi che possa vantare un disco, in generale, sia la fluidità del suo scorrere, quella capacità di cullare l'ascoltatore con naturalezza e riguardo, trasportandolo in un unico viaggio dal primo accordo fino al riecheggiare dell'ultima nota. Questo, capiamoci, senza alludere per forza a lavori strutturati come concept, e pensati quindi in funzione di uno specifico continuum tematico; si parla qui di qualcosa di più interiore e spontaneo, e meno consapevole: qualcosa di ipnotico che, se possibile, incarni i soli lati positivi di una dipendenza.
Questo per introdurvi all'idea che con gli Okkervil River, in questo senso, si possa andare sul sicuro. L'insieme di ciò che suonano scorre sempre con profondità e leggerezza, trascinandoci per quell'ora al di là della consapevolezza del tempo. E questo fiume di sogni dorati, in tal senso, non fa eccezione.
Il titolo stesso ben rappresenta l'importanza di questo fluire onirico alla base dell'opera: un disco all'apparenza molto semplice, composto da undici canzoni essenziali e orecchiabili nel solito stampo indie-folk delle loro produzioni - in questo capitolo, per dare riferimenti nello stesso filone, un po' più Wilco che Neutral Milk Hotel; ma a tratti si colgono richiami un po' più che vaghi ai Mercury Rev più ispirati di Deserter's songs, o in parte anche agli Eels della seconda parte di Electro-shock blues - giungendo comunque a sonorità proprie molto definite, che fanno di Sheff e compagni, ormai, esponenti di punta di un genere che anche grazie a loro si è guadagnato il suo buono spazio in territorio indie americano. Tuttavia, per quanto molti - forse a ragione - ritengano insuperato l'ispiratissimo esordio di Don't fall in love with everyone you see, qualcosa in più mi è sembrato animare quest'opera rispetto alle altre validissime produzioni di marchio Okkervil.
Se è vero che immergendoci più volte nel medesimo fiume non saremo mai bagnati dalla stessa acqua, allo stesso modo questi undici brani, nella loro ricercata semplicità, potranno magicamente comunicarci sensazioni differenti ad ogni ascolto. Si parla naturalmente di sfumature, quell'entrata sottovoce di un violino che ci era sfuggito, quella sommessa ed elegante sbavatura vocale che a ben vedere dà un notevole valore aggiunto alla personalità dell'interpretazione, quell'effetto di chitarra elettrica che sembrava poco più che ordinario ma ora è di un gusto decisamente raffinato e commovente. Inoltrandoci nell'ascolto, quindi, ci accorgiamo che ogni scelta timbrica e strumentale sembra sempre la soluzione migliore nel suo contesto, e scopriamo così, pian piano, che dietro all'esteriore semplicità melodica dei suoi brani, il disco vanta in realtà una varietà e ricercatezza strumentale maestosa: chitarre acustiche ed elettriche, lap-steel ed archi, banjo, mandolino, fisarmonica e piano, batteria in punta di spazzole, hammond, forse un mellotron, insomma un'orchestra che sembra rispondere al solo tacito comandamento di "suonare educatamente e massimo un gruppetto per volta". Così, al primissimo ascolto, tutta questa ricchezza di sonorità, gestita magistralmente da questi eccellenti polistrumentisti, passa in punta di piedi e paradossalmente quasi inosservata, in quanto la filosofia alla radice dell'opera si basa sulla non ostentazione, e sull'attenzione nei confronti dell'essenzialità, delle pause e degli spazi: e a dominare il ricordo di questo primo ascolto, di fatto, sono i momenti più introspettivi, chitarra e voce, nel rispetto dei quali ogni strumento alza la mano, aspetta il suo turno, dice la sua e torna al proprio posto.
Si nota quindi inizialmente una forma canzone semplice, che rimanda il pensiero a lavori belli proprio in quanto essenziali - come, per intenderci, quel gioiello che è O, che Damien Rice scriveva l'anno prima; e a partire dalle solide fondamenta di tale essenzialità, col passare del tempo l'attenzione sarà ipnoticamente guidata alla scoperta dei dettagli che fanno di quest'opera un piccolo capolavoro, non solo dal punto di vista strumentale. Molto interessante, per esempio, il fatto che tutti i brani siano in maggiore: precisa scelta stilistico-compositiva spesso in raffinata antitesi con tematiche e contenuti invece malinconici, a volte struggenti, per nulla leggeri al pari della controparte melodica.
Ne risulta un lavoro dall'impatto di insieme molto forte, che sarà intimo e personale al punto che non ho la minima intenzione di illustrarvelo brano per brano. Sì, potrei provare a spiegarvi le sensazioni che ho provato sul finale di For the enemy, o alla struggente trasformazione dell'interpretazione vocale in mezzo a The war criminal rises and speaks - il cui testo, peraltro, va a toccare cime di introspezione davvero molto alte. Ma un tale tipo di approccio, in questo caso, sarebbe a mio parere quasi fuori luogo, in quanto vorrebbe poi dire fermarsi ad imporre degli statici fermo-immagine ad un lavoro basato al contrario sul fluire, sul movimento, la cui esplorazione facilmente avrà risultati molto differenti da persona a persona. Sta a voi, dunque, immergervi nelle fiabesche note di piano della prima traccia, e lasciarvi trasportare con fiducia sino alla foce del fiume.
Un paio di consigli, però, posso darveli: concedete se possibile molta attenzione al primo ascolto, e non lasciatevi fuorviare dalla sua innocente semplicità estetica; darete così modo di emergere alla grandezza di un album che è certamente tra i più ispirati nel panorama indie di questo decennio.
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