Neil Young
Comes a Time
Il rischio dei grandissimi della musica di tutti i tempi è che spesso le loro opere siano valutate in relazione ai loro stessi capolavori. D'altra parte, se è con After the Goldrush che dai il buongiorno agli anni '70 - e non pago, immediatamente a seguire, proponi nientemeno che Harvest - un po' c'è da dire che te le cerchi, caro Neil; e non puoi certo andare a pretendere che quello che farai in seguito sia poi valutato con le misure adottate per i comuni mortali. Rischiano anzi di passare in sordina successivi lavori che potrebbero essere opere di punta per artisti meno fortunati e bravi di te.
E' questo il caso di Comes a Time, 1978. Piacevolissimo album tra folk e country, che ci permette di assaporare, nella beata pace dei sensi, uno dei più spontanei momenti di serenità musicale di un artista particolarmente lunatico e controverso, se si considerano gli stati d'animo che sembrano animare le sue svariate produzioni.
In questo senso, purtroppo non ho avuto il piacere di conoscere Neil Young nel 1978; ma dovendo basarmi sull'ascolto di questo disco, scommetterei con certezza che stesse passando davvero un bel periodo, sereno e felice.
Le immagini evocate da musica e testi riguardano amori, ricordi, speranze e tanta, tanta natura: il pezzo di apertura, Goin' back, esprime una buona sintesi dell'opera che introduce. Da ascoltare a occhi chiusi, lasciandoci trascinare a riguardare ciò che di buono ci siamo lasciati dietro, di modo da prepararci ad accogliere con la giusta dose di buonumore la titletrack, Comes a time appunto, ballata rigorosamente in maggiore introdotta da un vivace e spensierato violino, in cui Young sembra semplicemente prendere in mano la situazione della sua vita, in due strofe e due ritornelli, valutando il giusto modo di guardare il mondo e invitandoci con serenità a fare altrettanto. Poi, Look out for my love, in cui una voce, una chitarra e un arrangiamento essenziale inseguono la speranza di ritrovare un amore perduto, in un mondo tuttavia indifferente, già in frenetica evoluzione, in cui è certamente difficile affrontare le cose con la calma alla quale sembra invitarci l'artista. Lotta love, a seguire, è un piccolo gioiello che in quanto tale sarà ripreso più avanti da Nicolette Larson, in una magistrale interpretazione che la porterà con merito a scalare le classifiche dell'anno successivo.
E così, passando tra un'allegrotta ballata a due voci di stampo country (Human Highway) e un pezzo che richiama al Bob Dylan più acustico delle origini (Field of opportunity è cantata proprio alla sua maniera!) si giunge con Motorcycle mama a una buona boccata di sano blues, impreziosito proprio dalla voce di Nicolette, e dominato da una chitarra elettrica che si carica infine sulle spalle il lato beat e spensierato della questione: l'atmosfera di definitiva libertà che sprigiona con energia il pezzo è una degna e riuscita conclusione per quest'album così genuino, in cui nulla sembra essere fuori posto. Un lavoro senza le pretese nè l'ingombrante spessore dei giganti precedenti e successivi - l'anno seguente sarà la volta di Rust never sleeps - degno tuttavia di un'attenzione che sarà certamente ripagata nel migliore dei modi.
La chiusura definitiva è lasciata a Four strong winds, che ritorna nelle righe e chiude il cerchio con il suo finale aperto, facendoci tornare alle atmosfere iniziali dell'album.
Una chiusura che ci invoglia inevitabilmente a prenderci per noi i successivi cinque minuti, e usarli per sbarazzarci di qualsiasi pensiero.
Saremo pronti, allora, ad affrontare la quotidianità successiva a questo ascolto con positività e voglia, disposti sicuramente molto meglio di prima.
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