Porcupine Tree
In Absentia
Dicasi in queste righe "purista" colui che scopre, ascolta, esplora e si affeziona ai primi lavori di una band: la band, per il purista, si identificherà sempre in quei primi suoni, intimamente legati da un irrecidibile filo sino ai meandri del suo cervello, al punto che ciò che si allontanerà da essi, se pur di evoluzione si tratti, alle orecchie del purista suonerà come qualcosa di necessariamente sbagliato. Non si tratta ovviamente di un meccanismo razionale, per mettere subito in chiaro le cose: il purista ragiona e valuta in assoluta buona fede, e direi che tutti noi, volenti o nolenti, lo siamo, rispetto a qualche gruppo o artista che ci sia caro.
Non è questo il mio caso con i Porcupine Tree. Ci sono arrivato un po' tardi, non ho quindi avuto modo di legarmi ai primi gradevolissimi e un po' leziosi suoni di Wilson, Wilson e Wilson. Mi sento dunque più libero nell'affermare che In Absentia, per quanto ne sia distante, e per quanto segni una svolta decisamente più ammiccante a una maggior vastità di pubblico, è davvero un album di quelli grossi, che secondo i miei crismi guarda stabilmente dall'alto in basso alle altre produzioni del Porcospino.
Variopinto, ricercatamente orecchiabile, squisitamente abbondante di pezzi di punta nelle loro performance live, il disco - pur non privo di qualche caduta ed eccessive ampollosità - è pienamente godibile da seguaci di svariati generi e scuole, alternando magistralmente brani dagli spinti climax strumentali a pezzi dall'armonioso e lento riecheggiare onirico e levigante, appoggiandosi talvolta a sonorità di un quasi prog-metal che, tuttavia, non è certo il favorito tra i generi/etichetta candidati a definirne l'appartenenza.
Steven Wilson, pur confermandosi artista di raro eclettismo e raffinata intelligenza musicale, è supportato da strumentisti di impeccabile tecnica e discreta personalità (Già noti Colin Edwin al basso e Richard Barbieri, tastiere; da segnalare l'elegante e personalissimo drumming di Gavin Harrison, batteria e percussioni), al servizio di un'opera che ci rimanda, dicevamo, a svariate influenze, dichiarate o meno che siano: Pink Floyd e King Crimson da sempre ostentatamente fra i mostri sacri di Wilson, ma cogliamo qui e là sfaccettature cupe e malinconiche di stampo Black Heart Procession, in alternanza a scelte strumentali dietro l'angolo del prog-metal riconducibili in parte al gemellaggio Opeth; non mancano richiami a un certo progressive-pop d'autore di potenziale firma Marillion.
Si comincia con Blackest Eyes: il brano è apertamente melodico e mostra subito due facce differenti, celando un armonioso giro di accordi acustici che accompagna la voce pulita e riecheggiante di Wilson all'interno di un guscio più duro, che ne affida apertura e chiusura ad un riff di stampo decisamente metal. Ne risulta un buon connubio che va a sancire un'apertura carica e aggressiva, sulla quale, a seguire, avrà però la meglio la strada acustico-melodica: Trains difatti prosegue su un sentiero più folk, rimane un brano stabilmente melodico e ci regala un giro di accordi per nulla banale nella sua orecchiabilità, gratificata nella seconda parte da un attacco strumentale più duro ed elettrico, che tuttavia non ne snatura la ricercata finezza. Segue Lips of Ashes, breve ed intenso intermezzo in cui la ripetizione di un malinconico arpeggio di chitarra funge da base per l'intrecciarsi di una coralità di effetti dal sapore riecheggiante e onirico, preparando il terreno ad un assolo di grandissimo gusto, breve ed intenso, che va poi a sfumare nel finale: preludio per l'attacco di The Sound of Muzak, il brano a mio parere più riuscito del disco, che apre in un secco sette quarti in cui un ottimo fraseggio basso di chitarra è tenuto in piedi da una trascinante batteria dalla struttura sicura e solida. Il ritornello torna poi nei più accessibili 4/4, esprimendosi in un'orecchiabile melodia corale, dando all'insieme quel tocco pop che lo rende un pezzo quasi ballabile; assolo a seguire nuovamente all'interno dei sette quarti, al solito di grande spessore, tecnicamente semplice ma basato su una scelta effettistica di distorsione perfetta per il contesto.
Dopo tal felicissima apertura d'insieme, il livello qualitativo va però ahimè ad abbassarsi nella parte centrale: Gravity Eyelids è un bel pezzo ma un po' in calando rispetto ai precedenti, e Wedding Nails, insieme a The Creator has a Mastertape , sono a mio avviso i punti meno convincenti dell'opera; il primo è decisamente una tamarrata, con accento metal decisamente troppo marcato rispetto al contesto in cui eravamo immersi grazie ai primi brani, e il secondo pecca di eccessiva ostentazione, contribuendo in fin dei conti a spezzare quella fluidità d'insieme che si era inizialmente creata; in mezzo all'infelice accoppiata, per fortuna, due buone ancore di salvataggio una in fila all'altra: Prodigal è un buon pezzo melodicamente pop, impreziosito da distorsioni pungenti ma trascinanti, e in .3 spicca un notevole giro di basso che diventa buona architettura per un riuscito climax effettistico-strumentale.
E' tuttavia con il decimo brano, Heartattack in a Layby, che l'opera torna sulle cime più alte: dolenti note di struggente malinconia animano i rintocchi di un pianoforte sul quale il canto sembra giungere da lontano, dapprima in solitudine, e via via, nel finale, in uno squisito dialogo di controcanti che andrà a raggiungere un'altissima profondità emozionale. Impossibile che un gioiellino così possa lasciare indifferenti: ci staremo ancora pensando al passare di Strip the Soul, pezzo lungo e piuttosto cupo con qualche schitarrata forse di troppo, che a dire il vero passa un po' inosservato poichè inserito fra due brani di grandissimo impatto emotivo: il finale, Collapse the Light into Earth, è infatti un meraviglioso crescendo di coralità strumentale, sulla base di un lento e circolare giro di piano che si ripeterà inesorabile senza chiudersi mai: il miglior tramonto per un'opera di fattura davvero pregevole, ricca di ottimi brani di cui ci si stancherà difficilmente.
Peccato per quei pezzi forse di troppo, messi nel mucchio con la probabile intenzione di accontentare una buona fetta di pubblico, dalle esigenze più dure rispetto a quello che sarebbe potuto essere il senso unitario del lavoro.
Un lavoro ad ogni modo dall'indubbio valore artistico, con cui i Porcupine Tree possono abbondantemente permettersi di scendere a compromessi, forti di una freschezza di idee che coinciderà con un punto di positiva e meritata svolta all'interno del loro percorso.
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