A Glo-fi o ci sei?

Glo-fi o ci sei?

«La coscienza ipnagogica è in fondo smitizzazione dei mostri; ed è, in fondo, l’ultimo conato di nostalgia che la residua coscienza vigile soffre nell’imperfetto teatro della vita» (Rossano Onano, “Demhooneysm: La Conoscenza Ipnagogica Di Luca Rizzatello”)

Prima prendiamo atto della distinzione – sottile, ma c’è – fra “hypnagogic pop” e “glo-fi”, meglio è per tutti. Dunque… A David Keenan, critico illustre di “The Wire”, viene l’idea di ricorrere alla metafora dell’ipnagogia perché solleticato da una singolare distrofia percettiva che affligge certo sottosuolo “noise” a stelle e strisce (James Ferraro, Super Minerals, Ariel Pink, Oneohtrix Point Never) e che lo porta a flirtare, in senso lato, con la pop culture degli ’80s. Una musica in cui le coordinate spazio-temporali precipitano, nell’immanenza del post-modernismo posto a cardine dell’operazione, in un blob termo-reattivo di minimalismo, synth al saccarosio, “avant-cazzeggi” e ambient a bassa risoluzione. In pratica, ci troviamo di fronte una shit-music che si scorpora dalla componente “garage” e perde, se così può dirsi, il suo integralismo anti-pop. (Vecchia) purezza che perdi, (nuova) purezza che trovi: nello specifico, il reinventarsi come novella “new age” (questo scrive Reynolds nelle sue riflessioni all’indomani dell’articolo di Keenan), idioma tanto intrigante quanto sorprendere Vangelis che bazzica i cassonetti in cerca delle mutandine smesse di Kelly McGillis (la Charlie di “Top Gun”). Eppure, nonostante una certa vaghezza nel tratteggiare i confini del territorio “hypno” (nel calderone ci finisce di tutto e di più: dall’arpia gothic Zola Jesus ai “drone-friendly” Vodka Soap), il discorso di Keenan può vantare un solido “centro di gravità permanente”: la rilettura in chiave weird di certo scibile “melodico” anni ‘80s.  

Proprio questa rilettura sta alla base dell’altrettanto famigerato portale “glo-fi”, che poi è il nostro vero campo d’indagine. Domanda: basta siffatto particolare a fare di quest’ultimo una mera costola dell’ “Adamo ipnagogico” profetizzato nel torrido luglio scorso? Risposta: sì, no, forse. Se è innegabile che gli assunti da cui prendono le mosse glo-fi e pop ipnagogico siano gli stessi (nostalgia e rivisitazione), forme e modalità attuative sono differenti: attitudine avantgarde e “shitty” per Ferraro & Co, nella cui musica rivive il profilo più insalubre dell’allucinazione ipnagogica; approccio decisamente pop nello scodinzolante “glo-fi”, esemplare votato all’inconsolabile concupiscenza, al confondere la realtà del sogno e quella della memoria.

La buffa sacralità del glo-fi è giustappunto dettata dall’intimità della fruizione, dall’esclusività dell’esperienza eretta a simulacro di verità indie: un suggerire la possibilità di un ricordo “alternativo”, invadendo del privato (la registrazione su mangianastri, qualità da bedroom tapes) il pubblico dominio. Beccatevi il paradosso: mentre agli albori dell’indie-pop erano gli anni ’60 ad aggiudicarsi la palma di “età dell’innocenza”, nelle pubblicazioni glo-fi è proprio questo lato più egemonicamente eighties a (ri)scoprirsi portatore di una purezza perduta. E si badi, la questione non si presenta nei termini un generico recupero degli anni ’80, ché già vari aspetti musicali di quella decade sono stati assorbiti nel patrimonio genetico dei primi ‘00s (dalla nu-new wave alle reminiscenze “No-New York” in seno all’electroclash e alla DFA). A essere riscoperti/rimembrati/manipolati sono, infatti, soltanto certi anni ’80: gli ‘80s di pubblico ludibrio, “minestronizzati” con effetto memorabilia, imbacuccati di ghirlande e bolle di sapone; il filo dorato che unisce idealmente i titanici New Order alle esperienze più disparate, quali il synth-pop più smaccatamente commerciale (dai Bronski Beat ai Kajagoogoo, dagli Yazoo ai nostrani Righeira), l’italo-disco, la balearic house.

Il mezzo attraverso il quale riaffermare la visionarietà di questi stilemi, generalmente percepiti come trionfi di high fidelity, non poteva che essere la bassa fedeltà. Ecco gruppi come Teengirl Fantasy, Neon Indian, Small Black, Vega e Washed Out affidarsi a synth analogici sulla scia del Prophet 08, campionatori vintage come E-Mu Emax, Akai MPC-60, Ensoniq Mirage, unità di riverbero anch’esse “sorpassate”, compressori analogici. Altro trucco? Il sampling effettuato a una frequenza più bassa del normale, come avveniva agli albori del cut’n’paste, in modo da ottenere suoni sfilacciati, granulosi, da nastro smagnetizzato: l’effetto – consentiteci l’azzardo – è quello di un 78 giri in gommalacca di Charlie Patton che stranamente suona techno-pop! Non si tratta, quindi, di synth-pop semplicemente corroso dal noise, registrato con voci gracchianti e impastato di rumor bianco, ma di un’estetica produttiva assolutamente originale che, come una placenta bulbosa, tutto inghiotte, ammalia, anestetizza. Il fine, nello specifico, è acuire il senso di lontananza dalla fonte, suggerirne l’immacolato candore, l’autenticità.

Autenticità che si esprime anche e soprattutto sotto il profilo visuale, omaggiando/irridendo quella civiltà dell’immagine la cui consistenza retro-futuristica si astrae a memoria iconica, subliminalmente visiva. L’occhio si fa partecipe dell’orecchio, lo stuzzica, lo completa. Le copertine e i video delle band tirate in ballo sono quanto mai rivelatori: pop-art come la immaginerebbero dei neonati, tinte fosforescenti a piovere, scarabocchi minchioni promossi a gesto “dada” e “optical art” degenerata in monnezza nerd; ma in campo glo-fi sono gettonatissimi anche collage con ritagli di giornale, istantanee da album fotografico di famiglia (lo scatto balneare in copertina all’EP “Life Of Leisure” dei Washed Out), cartoni animati, e, più in generale, qualsiasi materiale sia in tinta con la scanzonata nostalgia (il sentimento adolescenziale dei Daft Punk “compresso” in pura celebrazione della preistoria del Nintendo) promossa a leit motiv della banda.

E la “banda” in questione è davvero sterminata, almeno stando alle continue uscite che intasano le pagine di Pitchfork. Spesso basta un singolo per accendere gli entusiasmi – a volte francamente imbarazzanti – di critici e appassionati, ragion per cui è arduo fare previsioni a lungo termine su questo o quel gruppo. Meglio allora soffermarsi sulle realtà un minimo consolidate, che già abbiano avuto modo di raccogliere i primi frutti della semina estiva, senza però tralasciare gustose chicche sparse qua e là. Perchè, diciamocelo, le canzoni riconducibili al “glo-fi” sono come le caramelle: una tira l’altra. E la carie, ahimè, è in agguato.

- «Music seems crazy/ Bands start up each and every day /I saw another one just the other day… A special new band» (Pavement, “Cut Your Hair”)

Nessun discorso sul glo-fi ha senso se non contempla la losangelina Ramona Gonzalez (aka Nite Jewel), l’(anti)diva che, armata del suo glamour straccivendolo, prosciuga le trame sonore da ogni consistenza tattile, rimuginando un concentrato “gassoso” di disco, electro e synth-pop in salsa DIY. Il primo singolo “What Did He Say” (2008), mette subito le carte in tavola: filiforme 4/4 di batteria con rullante ridotto in poltiglia (sottoposto a una cura a base di 44 Magnum?), fantasmini di tastiera Casio che fanno “buh!” di tanto in tanto, e una melodia vocale involuta ma infetta, quasi attraente. C’è tutto l’occorrente per parlare di “glo-fi”, persino con diversi mesi d’anticipo sulla concorrenza.

L’esordio sulla lunga distanza “Good Evening” (Human Ear, ancora 2008) conferma le aspettative, assoggettando cadenze “ballabili” a uno spleen che definire narcolettico è poco (“Suburbia”), oppure fantasticando una dance-music per androidi terribilmente retrò (“Artificial Intelligence” farebbe impazzire C1B8 e C3PO). La voce della Gonzales, poi, pare una lampadina a basso voltaggio già in procinto di tirare le cuoia, nel senso che risuona distante, intermittente, opaca (la si ascolti sull’inziale “Bottom Rung”, fedele alla ricetta “bossanova meets new wave” degli indimenticati Antena); anche quando intona un ghirigoro jazzy, a 1’50’’ della bellissima “Don’t Go (The Two Of Us Together)”, appare incapace di trascendere la propria immaterialità.

La combinazione di questi elementi crea un “iperspazio senza gravità” in cui nulla è reale e dove gli oggetti semplicemente galleggiano (la drum-machine pregna di riverbero nell’irresistibile “Weak For Me”), sospesi nell’incertezza “analogica” di cosa diventare. Non per fare i cool a ogni costo, ma sembra di ascoltare l’operato d’un Trevor Horn che la crisi mondiale ha ridotto in povertà, costretto a armeggiare con mangianastri e pianole per bambini. “Il registratore a 8 piste è essenziale per la mia musica: quando senti quel “click”, è allora che capisci che il suono è davvero finito” conferma la Gonzales. “Non sono cresciuta in un ambiente dove la tecnologia digitale veniva usata. In casa mia era tutto analogico. Anche adesso lavoro bene solo con l’attrezzatura con cui so di poter dare il meglio, e sicuramente ciò non comprende programmi per computer.

E non rinuncia ad apparire, la ragazza: sfavillante ma ordinaria, un po’ “geek” e un po’ primadonna,  icona di quotidianità “alterata”. Nel video di “Lover”, addirittura, si dilunga in pose patinate, con tanto di lunghi capelli smossi dal vento, ralenti e lenzuola di seta; eppure anche qui la povertà del set e l’illuminazione approssimativa (notare il macroscopico e insistente effetto rainbow) fanno più pensare a una parodia, o al capriccio di una teenager che voglia imitare le popstar degli anni ‘70 e ‘80. Ma si sa, nel “glo-fi” nulla è come sembra, e giocare al depistaggio è la norma.

Così avviene anche in “Psychic Chasms” di Neon Indian vera quintessenza del glo-fi. A partire dal vivace collage della copertina, dove una cascata naïf di colori piatti e ultra-vistosi copre un’immagine che resta indecifrabile, tutto il disco propone la dicotomia tra una briosità sovresposta in effetti fluorescenti e una fumosità di fondo dalle tinte nostalgiche. Le dodici canzoni si muovono al passo di beat cicciosi e di uno stillicidio di effetti da videogioco che si sovrappongono e si catapultano sulle melodie come laser di navicelle spaziali. La voce del tuttofare Alam Palomo, quando compare, è sommersa da sognanti fasciature italo-disco, mentre strati continui di jingle si arzigogolano sopra tastiere ondivaghe, le cui frequenze vanno e vengono in continuazione. Tutto è infradiciato in un vago riverbero, come ricordi intermittenti, tanto che l’impressione è di sentire registrazioni live di sigle televisive di vent’anni fa (“Laughing Gas”), con la drum machine e la voce che coprono, a flussi alterni, i synth. Chitarre stra-effettate scivolano sulla saponatura delle tastiere (“Deadbeat Summer”, “Terminally Chill”), mentre una gluma plasticosa e blobbosa sommerge tutto, come nel dream pop elettrificato di “6669 (I Don’t Know If You Know)”. Manipolazioni sul Korg e sverniciature da spiaggia (“Local Joke”) abbondano, tra incursioni vistose nell’8-bit computeristico più allucinato (“Should Have Taken Acid With You”, cioè i Crystal Castles in una pausa ludica) e ancheggi funky degni dei Daft Punk migliori (“Ephemeral Artery”). Il disco, pur con qualche intermezzo puramente interlocutorio, scorre alla grande, e si presta, più che al dancefloor, a fughe memoriali solitarie: l’evocatività malinconica di “Mind, Drips”, nel beat massiccio e ultra-‘80, tenuto però a ritmi bassi, di fatto 'un-danceable', esibisce la natura tutto sommato autistica di questo genere e della sua generazione già nostalgica a vent’anni.

Ma è un autismo pacifico, quello di Neon Indian, mai problematico e chiuso in se stesso: se c’è un ritorno in auge dello ‘shy pridesmithsiano, questo però è sciolto dai complessi più tortuosi e come agghindato da eterno gioco virtuale (così anche negli altri ‘glo-fi-ers’: quando Memory Tapes in “Green Knight” proclama «even though I'll never hold you, I can watch the ones who will» o «I want to call your name, at the sound of my voice you turn away», urlando la propria esclusione dal gioco dell’amore, è comunque immerso in un mare di consolante melodia e di pirotecniche invenzioni sonore: Morrissey, sì, ma in bermuda). Il jangleur Palomo, da parte sua, si bea manipolando abilmente ricordi di proto-tecnologie anni ottanta per rivitalizzarli di nuova linfa, tutta vischiosa e sbrodolata (strutture storte, asimmetrie diffuse, schizzi incompiuti, e, insomma, tutto il bagaglio ‘art-pop’ e ‘indie’ degli anni ‘00), senza uscire dai confini popular, anzi, colpendo con un attacco multiplo di jingle e motivetti che sembrano germinare all’infinito. E, attenzione: Palomo, figlio di un cantante messicano discretamente celebre nel suo paese tra anni ‘70 e ‘80, non si limita a pescare sample dai repertori eighties più esibiti, ma va a piluccare dai dischi di suo padre (!) o da pozzi di inventività pop rock apparentemente distantissimi come Todd Rundgren (la cui "Izzat Love" è citata esplicitamente nell’incipit di "Deadbeat Summer"). Tutto torna buono per (ri)creare, in un processo demiurgico entusiasmante che sommerge l’autismo con secchiate di colore (e calore). Bastano allora cinque secondi del (superfluo) pezzo d’apertura per essere assaliti da una mitraglia di effetti computeristici à la Space invaders e per essere immersi nel gioco e nella sua dimensione protetta, dove, anche se si perde, non si perde niente.

L’immaginario dei videogame, d’altronde, vive in questi pezzi come il filtro, privato della sua innocenza ma ancora riutilizzabile, attraverso cui guardare il mondo, e la coscienza di Neon Indian a questo proposito (Palomo ha dichiarato di appartenere alla «prima generazione la cui immaginazione è stata dettata dai videogame») toglie qualsiasi dubbio di naïveté alla poetica del glo-fi tutto, intriso non per caso di figuratività videogiocosa retrò anche a livello visivo, a partire dagli sfondi delle pagine myspace (quella attuale dei Deastro, in materia, appare imbattibile; va detto che la stessa estetica spartana e geometrica del layout myspace si adatta da dio a quel gusto per una pop art tutta cromatismo e ibridismo, ritagli e collage, tipicamente eighties, e penso alle tavole di Juan Gatti per il “Weekend postmoderno” di Tondelli, un libro che questi artisti amerebbero alla follia). Il gioco al computer è la madeleine del glo-fi. È la chiave che fa aprire, con un automatismo sempre eccitante, le porte del passato, dalle quali poi si riversa una mole travolgente di altri ricordi. È così che la nostalgia di questi artisti verso l’infanzia (quando il computer era solo divertimento...) fa incrociare i rigidi colorismi Amiga e Commodor 64 con le sgranature sbiadite di altri mille flashback, legati soprattutto alla rilassatezza sbracata delle vacanze, sicché ne risulta un trionfo di leggerezza perduta e di inconsistenza ormai irrecuperabile.

              

Menzione speciale per un altro progetto di Palomo, Vega, “fresco” (insomma, è uscito a luglio) di EP su Vogue College. Con una copertina che frulla in un sol colpo “The Dark Side Of The Moon” e il surrealismo “sci-fi” di Jean Michel-Jarre e Mike Oldfield, “Well Known Pleasures” (capita l’ironia, cari Sumner e Hook?) suona meno “ondulato” di “Physic Chasms”, per non dire proprio pulito. Soltanto l’apertura “No Reasons” gioca a irridere educatamente il “french touch” con samples vocali distorti; il resto viaggia sui binari sicuri di house ed eurodisco (soprattutto nella sua variante “space”), con puntate ai giardinetti pensili di un Sakamoto agghindato “new romantic” (“Kyoto Gardens”) e momenti molto simili ai Washed Out (sentite il finale di “All Too Vivid”). Come nei Neon Indian, la deliziosa costante è un mini-moog ancora odorante di naftalina che scimmiotta il genio “progressive-disco” Patrick Adams. Nel complesso, un’uscita assai gradevole. Ma proprio assai.

Potrebbe essere altrettanto gradevole “Causers Of This”, il primo disco sulla lunga distanza di Toro Y Moi, in uscita a inizio 2010. Per ora la marea di cassette e 7’’ usciti dallo studio casalingo di Chaz Bundick, di base in South Carolina, lascia intravedere una sorta di eclettica galleria fotografica, dove scatti che sembrano rubati da lise riviste estive (“Blessa”, tutta giocata su cori eterei, frequenze svirgolate e una chitarra impalpabile: vero momento di immersione memoriale) convivono con pose più adatte a un moderno scenario cittadino (l’electro-funk di “Left Alone At Night” o “Talamak”). Cassius narcotizzati o Etienne De Crécy ‘loungizzato’ in salsa hip-hop, il sound di Bundick possiede un tocco leggero e un’aura sensuale che possono dare al suo lavoro un’ammiccante ‘ruffianità’ gustosa anzichenò.

Appurato che ipnagogico è la penisola e il glo-fi “l’isolotto pop” situato nelle vicinanze, un possibile punto di raccordo (chi ha parlato di Ponte sullo Stretto?) l’ha proposto Dayve Hawk da Philadelphia (aka Memory Tapes), con la bonus track inserita nell’edizione Rough Trade dell’album d’esordio: “Treeship”, 22 minuti di squarci ambientali, melodie zuccherose, frammenti di nastro, drones e arpeggi di dulcimer; gioia che svapora nella malinconia ancestrale, al limite dell’autismo, con qualcosa della linearità dreamy di Daniel Lopatin (e de suo progetto Infinity Window in particolare).

In realtà, i panni del compositore elettronico non calzano granché a Hawk, uno che può definirsi piuttosto erede di grandi pensatori pop come Brian Wilson e Curt Boettcher. Volete una prova? Ve ne diamo otto, tante sono le tracce che compongono il superbo “Seek Magic”: otto “sinfonie tascabili” di beat stratificati, tastiere “neworderiane”, invenzioni melodiche che da sole potrebbero riempire due-tre dischi, sampledelia da rigattiere. Magia, in fondo. Quella che in “Swimming Field” guida l’arpeggio e appanna la vista, in un “sogno lucido” – per dirla alla Aphex Twin – di voci sibilanti sommerse dalla marea; o che nello strumentale “Pink Stories” mette faccia a faccia il Brian Eno della “Musica per Aeroporti” e Rob Hubbard, baffuto papà delle musiche da videogame, sovrano incontrastato dell’elettronica 8-bit.

Anche mettendoci tutta la buona volontà, è arduo trovare un album synth-pop che vanti una sì solida concezione polifonica. Sembra quasi che Hawk, da vero maestro nell’arte della “variazione”, s’inventi un pezzo nuovo ogni due minuti, intersecando temi su temi senza soluzione di continuità (come nella stupefacente “Green Knight”), o disponendo a raggiera, attorno al tema principale, oasi melodiche sempre diverse, sempre nuove (“Stop Talking”). Per non parlare dei suoni di tastiera: un’inusitata concentrazione di timbriche, dalla più raggrinzita (si ascolti il simil-feedback nell’ultimo minuto di “Graphics”) alla più luccicante (il singolo rivelazione “Bycicle”, fantasia disco-infected da tramonto sulla spiaggia, rischiarata da cori festosi e chitarra secca, piangente, alla Bernard Sumner); una giostra di colori che passa dall’acquamarina a un arancione fiamma, dal chartreuse al fucsia ostinato (il congedo “Run Out”). Non crediamo di esagerare se affermiamo che per ingegno, trasversalità e sensibilità musicale, “Seek Magic” può legittimamente candidarsi a “Pet Sounds” della generazione “glo-fi”.

Ma il bello di Hawk è che riesce a travasare parte di questa verve creativa anche nei suoi progetti “minori”, come appunto Memory Cassette, moniker col quale ha licenziato due EP nel corso del 2009. Cantati da voce femminile, alta e angelica come si conviene, “Call & Response” e “Rewind While Sleepy” sembrano caduti per sbaglio dall’Empireo, come ceste di frutta fresca e panna montata, luminosamente “out of this world” nel loro vaporizzare candore chill-out in foschia arcobaleno, abbinare contrappunti quasi “classici” di tastiere e un finale chitarristico pudicamente shoegaze (“Ghost In The  Boombox”), condensare in un unico sospiro elettronico il miglior twee-pop raccolto su C-86 (“Sleep On The Roof”, come dei Pastels virati “Robocop”), e persino architettare una ballata orchestrale immersa in vociare di sottofondo (la commovente “Asleep At A Party”). A sigillo dell’intera operazione, la sensuale, e a suo modo epica, “Surfin” (presente in entrambi gli EP): 2’44’’ nei quali è sonorizzato il desiderio degli angeli, la mistica del contatto fisico sussurrata dai My Bloody Valentine, il sole del mattino che si posa sulle labbra di una ragazza addormentata, l’innocenza dell’amore. La vita tutta. Quest’uomo è un poeta delle sette note, signori. Non dimenticatevene mai, per nessuna ragione.

- «Nobody on the road, nobody on the beach / I feel it in the air, the summer's out of reach» (Don Henley, “The Boys Of Summer”)

È una vecchia storia, d’accordo, quella della rivalutazione ‘peter-panesca’ dell’infanzia e delle serenità pre-adolescenziali, ma questi artisti hanno il merito di proporre il tema con originalità, perché aggiungono alle nostalgie di tutte le generazioni quella, paradossale, verso la vecchia tecnologia. Che è, si capisce, una (deliziosa) contraddizione in termini, visto che la tecnologia è il futuro par excellence. Non è, insomma, revival secco, quello glo-fi, come dimostra perfettamente la proposta di Washed Out. In questo gioco dei giochi, potremmo dire che se Neon Indian è una trottola sbilenca lasciata voltolare sopra un mosaico di colori, Washed Out è una biglia che si è arenata nella sabbia. La proposta di Ernest Greene, proveniente dalla South Carolina ma ormai stabilitosi con la neo-moglie nella campagna della Georgia (quanto è lontano il cliché del dj festaiolo tutto mondanità metropolitana...), è meno giocattolosa e scalena rispetto a quella di Alam Palomo, e, se possibile, ancora più sfacciatamente retrò-pop, sebbene di un pop ridotto in pillole e quasi mordi-e-fuggi, da cui un senso di fugacità ancora più amarognolo. Greene arriva a sperimentare un riuso lo-fi delle sonorità italo-disco soltanto nella primavera del 2009, dopo esperimenti che indugiavano piuttosto su lidi funk/hip-hop (nel suo progetto precedente Lee Weather); i suoi pezzi, quindi, hanno l’aria di schizzi come abbozzati con la curiosità del tirocinante, e proprio per questo, nella loro brevità spesso quasi tirata via, appaiono in grado di sprigionare una freschezza contagiosa, che arriva e svanisce con la velocità di un déjà-vu.

Due sono gli Ep che Washed Out ha finora pubblicato, il primo (“Life Of Leisure”) più omogeneo e compatto, il secondo (“High Times”, disponibile soltanto su cassetta) più vario nonché curioso per alcune derive in direzione trip-hop che fanno già intravedere possibili sviluppi futuri. Il piccolo capolavoro, certo, rimane “Life Of Leisure”, con le sue sei stringate perle di electro-funk a fedeltà ridotta. Rispetto a quello di Palomo, lo stile di scrittura di Greene affida alla voce un ruolo più decisivo, dal momento che è lei – sempre sfocata e immersa in lontananze vintage, quasi venisse da una registrazione amatoriale fatta durante una vecchia gita al mare – a dare profondità al consueto tappeto ondulante di tastiere e synth; le melodie cantate da Greene allungano e divaricano quei tappeti, attraverso note spesso strascicate, quasi a riprodurre la sospensione un po’ ebete del ricordo. I bassi, radi ma potenti (“Get Out”, “Hold Out”), contribuiscono a verniciare i suoni di color seppia e a riempirli di un’eco nostalgica, in un’atmosfera dream pop di raffinata semplicità (“New Theory”) che ad Air e Roÿksopp non riesce più da un pezzo.

Si è sempre colpiti dal sole che tramonta, in questi pezzi, tra immagini che perdono i propri contorni per eccesso di luce bassa. Che lo sguardo sia perso nel passato e in un sereno torpore quasi languido lo dice il sottoritmo decisamente chill out di “Feel It All Around”, ricostruita attorno a un riff originario di una vecchia hit nostrana (Gary Low, “I Want You”). Qua si tocca con mano l’operazione assieme revivalista e innovativa di Washed Out e del glo-fi tutto: il machismo latino dell’italo-disco, ammorbidito nei suoni, diventa autismo da cameretta, serafico scazzo, piacere solitario in tono minore e vagamente sfigatello; la sua robotica e le sue linee nette si trasformano in una sensibilità più calda e dai tratti nebulosi; i suoi testi fatui o del tutto nonsense divengono voluta ineffabilità, giacché raramente le parole pronunciate sono comprensibili. Tutte le forme devono essere confuse, tutto ciò che potrebbe essere conquistato deve sfumare inafferrabile, tutti i desideri devono rimanere inappagati. Se dell’italo-disco, quindi, il glo-fi riprende suoni e persino interi riff, ne stravolge tuttavia la poetica e l’estetica: basta confrontare i suoi risultati con quelli degli artisti scandinavi e francesi che proprio in questi anni stanno proponendo una ripresa fedele dell’italo-disco originaria, da Sally Shapiro a Skatebård, da Tobias Bernstrup alla ultra-pop Annie, fino a tutte le band che girano attorno all’etichetta transalpina Valerie (vd. Anoraak, College, The Outrunners). Quanto il revival è rigidamente ortodosso per questi, tanto è strumentale alla costituzione di una nuova poetica in Greene, Palomo & co.

Quella glo-fi non è, nell’insieme, un’elettronica che aggredisce: le sue movenze sinuose e galleggianti rimandano alle emozioni che ci colpiscono per sottrazione (rimpianto, mancanza del passato, della gioia, del divertimento), e la stessa ballabilità dei brani è incerta quando non impossibile. Ed è per questo che, restando su “Life Of Leisure”, titolo e copertina (una ragazza che fa il bagno al mare, ma a debita distanza dalla spiaggia affollata), suggerendo la serenità dell’isolamento e del dolce-far-niente, sono quanto di più rappresentativo Greene potesse scegliere. C’è la festa, ma se ne sente solo l’eco. Il poptimism stesso dell’incipit di “You’ll See It”, memore dei Pet Shop Boys più uptempo dell’era “Very”, viene subito svigorito dalla voce, semi-ipnotizzata, sicché tutta la carica iniziale si converte in evasione sovrapensiero: già ai 20 secondi chi si era buttato in pista pieno di energie è invitato a svaccarsi su un divanetto periferico.

Non è un caso che un mondo così vicino a uno sciallatissimo ozio trovi nella sponda del trip-hop un altro canale di espressione. L’Ep “High Times” è vistosamente diviso a metà: da una parte sforna altri gradevoli quadri synth-pop ristrutturati attraverso l’arte povera del fai-da-te e, magari, grazie a qualche tocco esotico (persino reggae nell’eccellente – e come il solito ‘mozzata’ – “Belong”, balearico nel trionfo ‘vamos-a-la-playano’ di “Olivia”), dall’altra recupera la batteria drogata, il basso liquido e il fruscio finto-vecchio di Tricky e Portishead. In questi pezzi resta sempre intatto il carattere lo-fi dell’‘altro’ Washed Out, ma cambiano completamente i suoni ai quali esso viene applicato. L’impressione è sempre bozzettistica e fugace, visto che si tratta di brevissime mini-suite sotto i due minuti e mezzo, ma è sufficiente per convincere: la voce sparisce, incombono Dj Shadow (“Luck”), le acidità funk e dub di Beck, Finley Quaye e Malakai, tra samples piazzati di sghimbescio (un sax in “It’s Kate’s Birthday”) e citazionismo esplicito (il giro di basso di “Glory Box” dei Portishead viene copincollato alla fine di “You Will Be Sad”, dove nei secondi finali si ‘plagia’ volutamente la voce di Beth Gibbons). Washed Out, nella transitorietà tutta estiva dei suoi esperimenti, potrebbe essere già passato al prossimo revival.

Dalla Georgia non viene facile passare a New York. Ma tocca. Non solo perché nella Grande Mela recentemente Greene si è esibito in uno dei suoi primi set live (per la verità non molto apprezzato, pare), ma anche perché lì sono di base gli amici Small Black. Sporca e psichedelica, la prospettiva di questo duo brooklyniano, mentre prende le distanze dalle basi italo-disco di Greene, si getta di pancia verso un pop sognante lasciato a friggere su risoluzioni bassissime e zozzure a iosa, facendo intravedere un’altra possibile strada, più drogata, per il complesso di Peter Pan glo-fi. Josh Kolenik e Ryan Heyner, nell’Ep eponimo, scattano foto a pixel giganti, e ciononostante colpiscono dritti alla testa con melodie killer affidate a una voce filtrata e distante. La lezione di Bradford Cox (più Atlas Sound che Deerhunter) si sente sin dalla ruvidezza melodica di “Despicable Dogs”, guidata da una drum machine battente ma non  sovresposta, attorno alla quale si affastellano effetti rugginosi e deliziosi ghiribizzi vocali. Il lo-fi è spinto agli estremi, ma senza il sostegno vintage del synth-pop: il pezzo, allora, remixato da Washed Out, cambia completamente faccia, attraverso una sorta di invecchiamento – invece che nelle damigiane – nel filtro agé del synth: il risultato è spettacolare e dimostra tanto l’abilità di Greene (tutta nostalgia e sfibramento) quanto la qualità intrinseca del pezzo. Il resto dell’Ep, invece di calare rispetto al brano di punta, raggiunge standard persino più alti. È la qualità compositiva, oltre alla varietà delle soluzioni adottate, a colpire: “Weird Machines”, con i beat che scandiscono un ritmo appesantito, a dribblare un guazzabuglio di riff gracchianti e scuri (Zola Jesus che rifà i Pixies di “Where Is My Mind”?), ha un effetto talmente stordente da convincere l’impasticcato a mettere l’ecstasy da parte, mentre “Bad Lover” si distende in un dream-pop di grana grossa che incanta a furia di brusii e cori psych. Tutto, negli Small Black, è giocato nell’attrito tra electro-noise e melodia, rumore volutamente fastidioso e easyness pop. I Jesus And Mary Chain non c’entrano. Piuttosto spuntano in sordina i Notwist e l’esperienza Morr Music (“Pleasant Experience”), accanto a più prevedibili destrutturazioni sperimentali (Beck e Chad VanGaalen in “Lady In The Wires”, pilotata come uno spinterogeno da un folle basso balzellante) declinate sempre con piglio personale. Da questi ragazzi potrebbe uscire qualcosa di grande.

Più tangenziali al movimento, i Teengirl Fantasy (Logan Takahashi and Nick Weiss, dall’Ohio, ma ora di base temporanea ad Amsterdam) si muovono in territori house revivalisti che da una parte guardano al dancefloor, dall’altra a un’introversione nostalgica sempre sul punto di sfociare in euforia. Se c’è, quindi, nei Teengirl Fantasy, una ripresa di effetti vintage e vecchi sample (campionati con Roland SP-404 e Akai MPC1000), con riferimento ai primi ‘90 piuttosto che agli ‘80, manca un mood nostalgico di fondo; piuttosto, si può dire che i richiami infantili e l’impatto ‘emozionale’ (soprattutto live: niente laptop, molta improvvisazione, ossia l’opposto rispetto a Washed Out) rendano i loro pezzi entusiasmanti tuffi nel divertimento puerile più disinibito. Qui prevale, insomma, la gioia del potersi comportare da bimbi anche passata la ventina. Così, nell’Ep di quattro tracce che i due hanno pubblicato quest’anno si assiste a un incrocio di etica DIY e alte vibrazioni che ha spinto i due ad autodefinirsi ‘lo-hi-fi’: casalinghi ma su-di-giri. Spettacolare, in quest’ottica, un pezzo come “Azz Klapz”, che in quasi otto minuti riversa di tutto: un incipit breakbeat primi ‘90 con sample hip-hop, estasi (o ecstasy) balearica, house sognante, tra Junior Vasquez e i New Order di “Technique” (“Vanishing Point”). Il colorismo rimane intatto anche dove i ritmi rallentano, come nell’ipnosi avvolgente di “Portofino” o nell’incastro sciancato di “Floor To Floor”, pieno di interferenze e di bassi profondi che scompaiono e riemergono come dagli abissi. Da ascoltare assolutamente, trascendendo dall’Ep, “Hoop Dreams”, 8-bit svirgolato che vira verso un disco-punk supervitaminico a tinte fluorescenti (qualcosa dei The Go! Team, anche nell’estetica, aleggia), con i sample vocali femminili iper-eccitati che si inseriscono in stacchi circensi riprodotti sul Korg. Ne esce un caotico delirio di una visionarietà accecante, per cui il consueto richiamo ai vecchi videogame non basta: tutta l’infanzia sembra rovesciarsi addosso a chi ascolta con una violenza vivace ed energizzante da schiantare qualsiasi accenno di nostalgia. E difatti pare che i Teengirl Fantasy, nei set-live, facciano ballare anche i sassi. L’album uscirà l’anno prossimo: da tenere d’occhio.

Decisamente happy vibe, fino al limite dell’ultra-trash nippofilo, è il sound dei Fizzy Dino Pop, tutto edificato sopra convulse basi synth-pop e vocalismi femminili franti tra i beat e disfatti dai vocoder. Qui l’influenza dell’8-bit e dell’universo videogame è palese (“Hello Party!”, “Chiyo Chiyo”), fino a estremi plasticosi tanto divertenti quanto grossolani: il confronto con Neon Indian, con il quale dividono il palco in alcune date, è piuttosto impietoso. Il rischio che certa naïveté glo-fi si trasformi in giocattoleria made in china di ultima scelta, d’altronde, è concreto, dal momento che si viaggia spesso sul confine dell’artificio e del ritocco al silicone. Il primo Ep dei Miami Horror, ad esempio, uscito l’anno scorso (“Bravado”), trascorre tutto sul filo di una ripresa del synth-pop balearico, a stretto contatto con suoni volutamente pacchiani sui quali sarebbe opportuno applicare un’etichetta con la scritta ‘handle with care’. È qui, insomma, che si vede chi ha la stoffa. E questo dj australiano ce l’ha: “Illumination” è uno splendido viaggio di sette minuti tra Blondie, Daft Punk e Pet Shop Boys da panorami disco-ottanta al neon (spettacolare l’apertura tastieristica in stile Chris Lowe ai quattro minuti, piena di un pathos melò tutto suo). Quest’anno, per Miami Horror, è arrivata la collaborazione con Alan Palomo in versione Vega, e l’avvicinamento alla scena nord-americana ha dato più vivace new-orderaggine al suo sound (“Sometimes”): manca la nostalgia ‘ipnagogica’, ma la direzione in vista del primo album sulla lunga distanza sembra poter collimare con le mosse glo-fi made in USA (“Make You Mine”), anticipando una possibile fusione tra l’elegiaco intimismo via mangianastri di Palomo & Co e il solare scatenamento degli amici Cut Copy.

Da Nonno Brian Wilson, invece, partono i baschi Delorean, domiciliati a Barcellona e dal passato punk-rock: “Seasun” pare una outtake di Panda Bear mixata assieme a “Take My Breath Away” dei Berlin (prodotti da Moroder), e ha già mandato Pitchfork in solluchero. Carino, non di più. Decisamente meglio “Deli”, che pompa l’immancabile aura malinconica ma festosa alla Cut Copy nella house di casa Dubtribe Sound System. Entrambi i brani sono contenuti nel primo EP “Ayrton Senna” (Fool House, 2009), che il Guardian ha già incensato come antidoto efficace contro gli steroidi “rock” di cui si sono imbottiti i Phoenix. Manca un deciso substrato lo-fi, ma il tutto è abbastanza vago e indistinto (il remoto synth “vocale” che guida “Moonsoon” e la stessa “Deli”) da giustificare la loro trattazione in questa sede. Vedremo cosa saranno capaci di fare.

Per chiudere in bellezza, ci giochiamo l’asso del saltimbanco. Ducktails (ossia Matthew Mondanile) ci sta simpatico fin dal moniker, lo confessiamo. Un po’ come Ariel Pink (ma non ai suoi livelli di pazzia), trattasi di un personaggio inclassificabile, di confine, perso fra weird-folk, elettronica dadaista e le “freakerie” più sconclusionate che possiate immaginare – tutte ben documentate nel primo cd “Backyard” (Release The Bats, 2009). Per questi motivi, il bardo del New Jersey avrebbe forse trovato una più logica collocazione nel vasto settore del pop ipnagogico, piuttosto che nella ristretta – ma confortevolissima – cameretta “glo-fi”. Ciò non toglie che, almeno col secondo album, il progetto abbia segnato un deciso spostamento d’asse. “Landscapes” (Old English Spelling Bee, 2009) è infatti composto da piccoli bozzetti melodici, non dai lunghi agglomerati sonori propinati da Ferraro, né dalle planate kosmische di scuola Lopatin; per di più, trattasi di brani “ritmici”, registrati alla cavolo, qualche volta anche cantati (non che delle vocals – pessime – si senta poi tutto questo bisogno), posti a metà strada fra exotica (la tenerissima “Roses”, dialogo amoroso fra un organetto e una chitarra in chorus), power-pop maciullato (“Landrunner”), i balletti subacquei di Steve Reich (“Deck Observatory”, “Seagull’s Flight”) e folk-pop corale condito da jingle-jangle (“Spring”, “Oh, Magnolia Tree”). È proprio questa eclettica, sognante, ma non del tutto risolta vena pop ad aver deposto in favore dell’inclusione nel lotto. Inclusione che, ad essere onesti, è anche una scommessa sul futuro, dato che per ora Mondanile, pur dotato, è ben lontano dall’aver affinato la propria scrittura. Riuscirà il nostro eroe a rinunciare al gusto perverso dello sbrodolamento (pratica comune nella casistica comportamentale di cui ci stiamo occupando) per puntare a qualcosa di più risoluto e concreto? Si accettano scommesse.

E tutti gli altri artisti ‘sbrodolati’ qua sopra riusciranno a sopravvivere all’onda dell’hype? Riusciranno, cantori dell’effimero, a non esaurirsi in una breve stagione e a non incepparsi come inevitabilmente accadrà ai nastri cu sui registrano? In questo caso si accettano soltanto scommesse sul no: dopo ‘sto articolo punteremmo anche a guadagnarci qualcosa...

DISCOGRAFIA

Nite Jewel – “Good Evening” (Human Ear, 2008)   7,5

Miami Horror – “Bravado” (Ep, EMI, 2008)   7

Neon Indian – “Psychic Chasms” (Lefse, 2009)   7,5

Vega – “Well Known Pleasures” (Ep, Vogue College, 2009)   6,5

Memory Tapes – “Seek Magic” (Something In Construction, 2009)   8,5

Memory Cassette – “Call & Response” (Ep, Acéphale, 2009)   7

Memory Cassette – “Rewind While Sleepy” (Ep, Mp3 only, Something In Construction, 2009)   7

Washed Out – “Life Of Leisure” (Ep, Mexican Summer, 2009)   7

Washed Out – “High Times” (Ep, Mirror Universe, 2009)   6,5

Small Black – “Small Black EP" (Ep, Cass Club, 2009)   7

Teengirl Fantasy – “TGIF EP” (Ep, Pukekos, 2009)   6

Toro Y Moi – “Blessa” (7’’, Carpark, 2009)   6

Delorean – “Ayrton Senna” (Ep, Fool House, 2009)   6

Ducktails – “Backyard” (Release The Bats, 2009)   5

Ducktails – “Landscapes” (Old Englis Spelling Bee, 2009)   6,5

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sarah alle 10:45 del 5 dicembre 2009 ha scritto:

Wow! complimenti, dissertazione davvero imponente.

Mr. Wave alle 12:52 del 5 dicembre 2009 ha scritto:

Grandi! Sontuoso articolo, complimenti vivissimi ragazzi.

Marco_Biasio alle 15:20 del 5 dicembre 2009 ha scritto:

Ho come l'impressione che con tutto 'sto po' po' di movimento, che ora sto snobbando alla grande, prima o poi dovrò farci i conti. Per adesso mi limito ad applaudire sonoramente la bellezza e la completezza di questo articolo a due. Pantagruelico!

ozzy(d) alle 22:23 del 6 dicembre 2009 ha scritto:

eh sì, bell'articolo. meglio di quello di ondarock.

fabfabfab alle 22:06 del 8 dicembre 2009 ha scritto:

Ho trovato il tempo per leggere il malloppone solo in questo fine settimana, complice la solita stronza influenza "che ti prende proprio quando non vuoi". Tre considerazioni: 1) Banalmente, Matteo e Francesco (messalina!) avete due stili riconoscibilissimi eppure avete ottenuto uno splendido grado di compenetrazione (!). La resa finale è eccellente. 2) Quelli che sembrano i principali artefici di questo glo-fi a me non hanno convinto pienamente. I Memory Tapes hanno spunti interessanti, ma non riesco ad apprezzarne la complessità, la stratificazione sonora, il ricorso continuo a temi melodici sempre nuovi all'interno dei brani. Dei Neon Indian apprezzo solo certi suoni "vintage" e nient'altro. Stessa cosa per i Washed Out (Air + Royksopp + Aggiungeteci pure quello che volete = non fa per me). Sicuramente la mia analisi è meno approfondita della vostra ma - almeno per ora - penso che non andrò oltre. 3) Grazie ai vostri suggerimenti, ho scoperto alcune cose che invece mi piacciono molto: l'hip hop lunare di Nite Jewel, gli Small Black (più Deerhunter degli ultimi Deerhunter) e sopratutto quel piccolo genio di Ducktails, davvero molto vicino (come giustamente fate notare) ad Ariel Pink, uno dei pochi musicisti "nuovi" per i quali vado letteralmente fuori di testa. Grazie mille, ragazzi.

loson alle 15:18 del 9 dicembre 2009 ha scritto:

RE:

Grazie anche da parte mia, Fab. Il mitico Ariel Pink è un personaggio verso cui provo uno strano misto di amore/odio (più amore che odio, a esser sincero ), nel senso che come autore/arrangiatore sa essere un fuoriclasse (e "The Doldrums" lo mostra appieno), però "sporca troppo" i suoi pezzi. Ok l'originalità dell'estetica, "shit-pop" qui e là non ci piove, però penso che dovrebbe cercare di fare qualcosa di più "articolato". Lo stesso "The Doldrums", ad esempio, registrato un pò meglio e con suoni più nitidi (non laccati eh, solo più nitidi), sarebbe monumentale. Adesso il tipo si è accasato presso la 4AD: spero che Ivo gli insegni un pò di disciplina... ;D

target alle 14:25 del 9 dicembre 2009 ha scritto:

Son contento, fabio, che hai trovato nel calderone qualcosa di gradevole. L'ep degli Small Black, in effetti, lascia intravedere prospettive succose per un album nel 2010. Una precisazione sul termine glo-fi: noi per chiarezza abbiamo usato solo questa etichetta (discutibile, di comodo, criticabile, come tutte le etichette), nonostante 'se la giochi' con l'etichetta 'chillwave'. Insomma, lo sostanza è la stessa...

Dr.Paul alle 14:36 del 9 dicembre 2009 ha scritto:

bravissimi, sulla fiducia pero, per leggere tutto dovrei prendere un giorno di ferie...prima o poi )))

Ivor the engine driver alle 11:32 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

Mi fa un po' strano come si ingrandiscono a dismisura e in pochissimo tempo fenomeni musicali partendo in pratica da un articolo di st'estate di The Wire, giusto? Segno dei tempi, ma anche sintomo di un sentire molto legato all'immediatezza, che non si sa mai se pagherà alla lunga distanza. Come detto in altra sede non c'è niente di + lontano da quello che mi piace in metà dei gruppi citati, ma rispetto alle premesse riesco a salvare qualcosa. Però una cosa di questo movimento musicale per me è lapalissiana: citando una recensione di Andrea Pomini riguardo a Neon Indian "musica segno dell'avvenuto ricambio generazionale: nessuno cresciuto negli anni '80 avrebbe il fegato di fare roba simile"

Ivor the engine driver alle 11:33 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

ah non volevo dire (mi riferisco a Target e Loson)che siete voi ad ingrandire il fenomeno, è un discorso generale, anzi la vostra analisi è lucida e divertente. Anche se per me è come se stiate dissertando sulla beatificazione di Craxi, tanto per rimanere in tema '80

loson alle 12:36 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

RE:

"Anche se per me è come se stiate dissertando sulla beatificazione di Craxi, tanto per rimanere in tema '80" ---> Ahahahah, mitico Ivor! ;DDDD

DonJunio alle 13:35 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

Beh Ivor, se una cosa è sulla bocca di tutti è normale approfondirla e sviscerarne i contenuti: poi ognuno ascolta gli artisti in questione e trae le sue conclusioni. Del resto ciò di cui si tratta in questa sede è sì spuntato fuori improvvisamente con l'articolo di Keenan, ma si trattava di un fiume carsico affiorato in superficie, con effetti sotterranei già visibili e in alcuni casi trattati in precedenza, e poi inevitabilmente riordinati.

FrancescoB alle 14:36 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

Articolo davvero ben fatto e godibilissimo, che tratteggia bene questo fenomeno. Mi sono segnato un sacco di roba, thanks!

target alle 15:03 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

"musica segno dell'avvenuto ricambio generazionale: nessuno cresciuto negli anni '80 avrebbe il fegato di fare roba simile" ----> Verissimo! Constatazione intelligente. E per fortuna succede così, cioè che le nuove generazioni recuperino quanto musicalmente (e non solo) le ha precedute con un piglio fresco e privo delle sovrastrutture del vissuto, sennò sai che cojones! Comunque l'articolo di Keenan si concentra per lo più su artisti (James Ferraro, Zola Jesus, di cui qua su storia si parlava già da un po', Gary War) che qui non abbiamo trattato, preferendo focalizzarci sul cosiddetto glo-fi/chill wave. E le due dimensioni non sono poi così strettamente connesse... Infine, ovvio che è un rischio fare riflessioni su fenomeni ultra-contemporanei, per cui si finisce per ingigantire le cose (come sempre quando si tratta di realtà vicine nel tempo: è normalissimo!). Però, insomma, è anche più interessante che riflettere sempre su avvenimenti già morti e defunti, no?

loson alle 15:43 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

RE:

"ovvio che è un rischio fare riflessioni su fenomeni ultra-contemporanei, per cui si finisce per ingigantire le cose (come sempre quando si tratta di realtà vicine nel tempo: è normalissimo!). Però, insomma, è anche più interessante che riflettere sempre su avvenimenti già morti e defunti, no? " ---> Ovviamente stragiusto! Perchè non esaminare - con tutti i limiti del caso, e qui mi rivolgo anch'io ad Igor - un fenomeno nel suo divenire? Certo a bocce fredde tutto acquista un senso forse diverso, magari più limpido, ma ciò non toglie che dei fenomeni musicali si possa/debba parlare anche nell'imminenza della manifestazione o, come nel caso glo-fi, raggiunto un certo grado di chiarezza.

fabfabfab alle 10:37 del 6 gennaio 2010 ha scritto:

Il disco di Nite Jewel è splendido!

Filippo Maradei alle 20:06 del 4 maggio 2010 ha scritto:

Articolo S-T-U-P-E-N-D-O.

Vi amo.

synth_charmer alle 15:36 del 15 luglio 2010 ha scritto:

bravissimi ragazzi. Trovo che il principale punto di forza dell'articolo sia quello di "fare ordine" all'interno del calderone ipnagogico, discriminandone le reali assonanze stilistiche che possono dar vita ad una categorizzazione sensata. Comprendo e per certi versi condivido le perplessità nei confronti dell'intenzione di Keenan di accomunare sotto un'unica definizione un ventaglio tanto eterogeneo di suoni. Voi siete riusciti a limitare l'analisi sui reali punti di contatto esistenti tra le musiche dei gruppi citati. E trovo ancora più azzeccata l'esclusione dal territorio di indagine delle proposte di Ferraro, Super Minerals e Oneohtrix Point Never, che non solo sono decisamente lontane dal glo-fi ma sono anche piuttosto diverse tra loro. L'esigenza di trovare delle categorizzazioni per musiche così sfuggenti è chiara, ma chiuderle tutte in un enorme scatolo e etichettarlo con "hypnagogic pop" mi sembra discutibile mentre tecnicamente parlando il glo-fi è un genere abbastanza preciso. Poi personalmente posso anche essere più interessato allo spessore d'avanguardia del non-genere ipnagogico, ma oggettivamente parlando è il glo-fi a meritare una necessaria dissertazione come la vostra. Complimentoni!