Royksopp
Junior
Röyksopp, capitolo 3: La sintesi. Anche se il duo norvegese pubblica dischi ogni quattro anni, per analizzarli userei il paradigma delle triadi hegeliane. E dunque: la tesi era “Melody A.M.”, uno dei picchi elettronici dei ’00, tra ambient e occhieggi radio-friendly, da sbavarci sopra con il sorriso; l’antitesi era “The Understanding”, virata più scura ad assecondare la fiumana scandinava, con maggiori escursioni mainstream. E la sintesi i Röyksopp ce la servono sul piatto del pop. Mediazione e superamento: voilà.
Basta ascoltare l’alfa e l’omega del disco per capire l’aria che tira. “Happy Up Here”, aperta (lo si noti) da esibite risate, sconvolge i canoni delle lungaggini dance con una brevità ficcante e sbracata; cantato ridotto a un motivetto persino frivolo, effetti da gioco per computer (cfr. il video), tra cui un accompagnamento squarciante che compare e dispare come un tagliaerbe. (Come in “Vision”, peraltro; segno di una fantasia al ribasso?). “It’s What I Want”, stupidissimo e ignorante inno al ‘take it easy’ che cita il synth-pop più eighties per ornarlo nuovamente di cori facili-facili, chiude a cerchio. La stupidità e l’ignoranza che ci piacciono, eh, ché forse mai Bruntland e Berge hanno composto un electro-pop così diretto.
Se questa è la cornice, qualcosa cambia nel quadro dipinto dentro, ma neppure tantissimo. “The Girl And The Robot” rilancia in chiave Ottanta, Italo Disco style, il baffo di Giorgio Moroder sullo sfondo, spinta anche dalla voce patinata di Robyn. A proposito di voci, non può mancare quella di Karin Dreijer Andersson, a cui in sæcula sæculorum rimarrà legato il vero capolavoro formato singolo dei Röyksopp (serve che lo dica? “What Else Is There?”, claro) e a cui l’orecchio elettronico, tra Fever Ray e The Knife vari, associa sempre più spesso inquietudini oscure in salsa nordica. E, insomma, un pezzo che si chiama “Tricky Tricky” non poteva che cantarlo lei, macchiando il ritmo alto di una frenesia febbrile; peccato solo per un’inutile coda strascicata oltre il dovuto. “This Must Be It” è forse migliore, più ballabile, con la voce che apre visioni aeree tra melodie e tastiere avvolgenti: quei Röyksopp da viaggio, che giocano a contaminare il loro pop di stratigrafie ambient.
Così così i momenti strumentali (meglio la riflessiva “Silver Cruiser”, chill-out con basso new wave, alla un po’ pacchiana “Röyksopp Forever”, persino carica di un sentimentalismo sviolinato fuori sesto, da rondò), mentre altri episodi si perdono nelle pieghe del non necessario (“Miss It So Much”, “You Don’t Have A Clue”, pop fin quasi troppo anonimo).
Sintesi perfetta, insomma. E che la sintesi fosse il pezzo forte di chi si giostra tra i synth era forse facilmente pronosticabile. Tanto da non entusiasmare. Che siano diventati persino troppo furbi in Norvegia?
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