The Juan Maclean
The Future Will Come
Ora è una certezza: la Dfa non sbaglia un colpo. Non può concederselo. O non ne ha la capacità, fate voi. E adesso reiterate pure ai quattro venti la tiritera del ripescaggio, dell’escamotage post-moderno che ormai ha fatto il suo tempo, di ‘sti benedetti anni ’80 che non li potete/volete digerire e puntualmente ve li trovate nel piatto a zampettare come scarafaggi (“Ma è possibile che in un ristorante di tal fregio ci si debba aspettare un simile trattamento? Lei non sa chi sono io!”), della disco (euro, italo o mutant è uguale) di cui ormai avete gli zebedei ricolmi, del punk-funk, di questo e di quello… Non sbaglia un colpo. Prima accettate la cosa e meglio sarà, per voi e per la vostra salute.
Ciò premesso, è bene notare come “The Future Will Come” porti la prassi del citazionismo tipica della label a vette di quasi celestiale paraculismo. E non solo per la linea vocale di “No Time”, presa pari pari da “Being Boiled” degli Human League (nulla di nuovo, se n’è accorto chiunque), ma per tutta una serie di rimandi più o meno trasparenti che il signor John MacLean – insospettabile chitarrista noise-rock dei Six Finger Satellite (!) durante i ‘90s, poi convertitosi ai precetti del dancefloor – e la collega Nancy Whang (LCD Soundsystem) esibiscono con forbita, ancorché pavida, nonchalance. Persino il titolo è furbizia allo stato puro, per quel suo glissare con grazia le implicazioni “ballardiane” che tanto charme avevano infuso ai vari Gary Numan e John Foxx, rimandando l’appuntamento col domani a data ancor da definire. Come dire: “Ragazzi, il futuro non è questo. Questo è ancora il 1981, lo sapete…”. Già, proprio così. O meglio no, non proprio: questo (2009) è anche il 1981, ma non solo. Intendo?
Capita così che alla seconda prova sulla lunga distanza (la prima era il discreto “Less Than Human”, datato 2005), i Juan Maclean estraggano dal cilindro un miracoloso canzoniere infetto di batteri synth-pop, bacilli disco e stafilococchi house, impreziosito dai duetti fra l’ugola baritonale di John e il registro femminile/androide della Whang. Una sconsolata analisi (e ricomposizione) al microscopio dei filamenti di DNA che ancora ci costringono, macigni, a sostare nel purgatorio zuccherino dei nostri ideali. Capolavoro osmotico.
Tre i capisaldi, tutti sopra i dieci minuti: “The Simple Life”, Mo(ro)der(nariato) dai vivaci colori metallizzati, con le tastiere che si espandono, gonfiandosi come meduse violacee, in ghirigori minimalisti di squisita fattura; “Tonight”, disco “progressiva” ed eterea come la facevano gli Space, sostenuta da una ritmica leggermente sincopata e dall’intervallo di quinta dei bassi che odora di Detroit lontano un miglio; infine la conclusiva “Happy House” (pubblicata come singolo l’anno passato), monumentale “benvenuti in mia casa” di bassi funky, liquidità rhodes, pianoforte alla Marshall Jefferson, e un finale con venature acid di 303 da brivido.
Fra questi colossi strategici, una flora di idiomi ‘80s rivitalizzati, fitta vegetazione transgenica che va dalla Title Track (gli Human League stavolta “imbastarditi” dalla disco latina di Nicky Siano) a “The Station”, passando per capolavori assoluti come la felina “Accusations”, il girotondo “nippo-electro” di “A New Bot”, e sopratutto “One Day” (prenotata come song del 2009, siete avvertiti!), estasi di synth soavi e archi merlettati, con la Whang sublime a disseminare purpurea stardust lungo i nostri padiglioni auricolari. Unico momento fuori dal coro è una “Human Disaster” pianistica e solenne, vagamente ambient, dove MacLean mette l’anima a nudo con l’identico turpe candore del Trent Reznor di “Hurt”: “If I could go back to a happier time/ I wish you a warning, I’d make you an offer/ I wouldn’t regret the space that I wanted/ The space that I’m lost in/ What a disaster, a human disaster…”.
Proprio da questo grumo vischioso, schermato dalle superfici alabastrine che ricoprono il disco, mi parte una dissertazione in pendant con la cover – bellissima quanto passata inosservata – che ritrae i due in un’asettica sala d’aspetto, altrimenti deserta: lei seduta in attesa del suo turno; lui, mani e testa premute contro la parete, tenta di percepire vibrazioni, captare segnali. I segnali di qualcosa che ci piglierà tutti, volenti o nolenti. Qualcosa di minaccioso. Lettura forse pretenziosa, probabilmente fuori luogo per un’opera che fa del “fun” la sua ragion d’essere. Eppure quel “The future will come for everyone…” inizialmente recepito quale sbrigativo singalong col quale sgolarsi mentre la natica ondeggia, sculacciata da congas e maracas, al decimo ascolto pare già un avvertimento, un presagio di sventura. Della serie: “Stavolta ci siamo, e non ce ne stiamo nemmeno accorgendo”. Pensate se fosse vero… Oh Cristo, balliamoci (beviamoci) su.
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