Pet Shop Boys
Yes
Nonostante abbiano da poco ricevuto un Brit-Award alla carriera per il ragguardevole contributo dato alla musica inglese, i Pet Shop Boys, al decimo studio-album in 25 anni di musica, si sentono tutt’altro che al capolinea. Di più: Chris Lowe, 49, e Neil Tennant, 54, si sentono ancora dei giovanotti. Il che costituisce, a ben vedere, il maggior pregio e il maggior difetto del loro nuovo lavoro, “Yes”, ringiovanito dalla produzione di Brian Higgins (alias Xenomania: l’uomo dietro agli ultimi fenomeni pop da classifica d’oltremanica, Girls Aloud in testa) e da testi a tratti ultra-giovanilistici. Appunto, il bene e il male, in un’arte del pop in musica che da loro comunque non può prescindere.
Benissimo, direi, la produzione di Higgins. Non che i Pet Shop Boys non sappiano più prodursi da soli, come spesso hanno fatto, né che Trevor Horn sullo scorso “Fundamental” avesse fatto un brutto lavoro (di certo, però, non memorabile, e troppo datato), ma è innegabile che Xenomania abbia portato una sana boccata di aria fresca, anche a livello compositivo. Già, perché “Love Etc.”, “More Than A Dream” e “The Way It Used To Be”, i tre pezzi in cui Higgins collabora anche nella scrittura, sono, a parere di chi scrive, i migliori del disco: sghembi quanto basta, non modellati sulla canonica forma-canzone, melodicamente subito ficcanti, non troppo sbilanciati verso la dance ma non per questo insipidi. La dimostrazione, insomma, che qua dentro i fan dei Pet Shop Boys possono trovare la stessa quantità di grandi singoli che ogni loro disco ha sempre garantito.
In ogni caso, per chiarirci: “Yes” suona tremendamente Pet Shop Boys. Nulla è snaturato del loro sound e della loro attitudine pop blasé. Il titolo hi-vibe può riportare ai tempi di “Very”, così come certe sonorità festose (spontaneo, ad esempio, un parallelismo tra “Pandemonium”, tipica marching-song PSB, e “One In A Million”), sebbene l’atmosfera colorata non cancelli quel tocco torvo che ha sempre distinto il synth-pop del duo. Tennant e Lowe sogghignano anche qui. E allora sarà “Behavior”, tra i dischi del passato, la sponda più vicina nei passaggi introversi: ascoltando la glabra “King Of Rome”, per dirne una, è impossibile non tornare ai tappeti sinfonici di quell’album, tuttora il più caro ai fan dei Pets.
E altrove, nei brani più lenti, l’amarezza deborda. L’andamento malinconico di “Vulnerable”, sulla dipendenza che lega la star al suo pubblico, affascina, così come l’aria ingrigita che le tastiere di Lowe conferiscono a “The Way It Used To Be” (apice?), nostalgico ricordo dell’amore giovanile cantato da un Tennant scuro che allinea ben sette linee vocali diverse, senza lo sbocco di un vero ritornello, in uno snodarsi labirintico e disorientante che per struttura ricorda poco altro dei Pet Shop Boys.
Ma anche alcuni dei momenti più uptempo non nascondo pieghe accigliate: “Love Etc.” stessa unisce il saltellio bubblegum del beat (un po’ “Can You Forgive Her”) a un gioco di cori e controcori da teatro, con un testo che pencola tra banalità più o meno apparenti e uscite arty tipicamente Tennant («You need more than the Gerhard Richter hanging on your wall»). Scura anche “Building A Wall”, in cui Neil (convinto europeista) accusa l’iper-protezionismo britannico coadiuvato dal sostegno vocale di Lowe, il che fa sempre specie.
Convincono meno i brani arricchiti dagli arrangiamenti di Owen Pallett (già Arcade Fire e The Last Shadow Puppets): “Beautiful People”, acustica sixties stile Dusty Springfield – uno degli idoli dei PSB –, non convince, anche per un testo bolsamente conformista. Da citare solo perché è la prima canzone in cui i Pets usano l’armonica. Suonata, va detto, da Johnny Marr, che strimpella la chitarra in quattro pezzi, seguendo la scia di un’amicizia e una collaborazione ormai lunghe. Noiosetto il finale di “Legacy” (una “My October Symphony” uscita male).
E insomma. I vecchi Pet Shop Boys non perdono un colpo, anzi, lo perdono proprio dove fanno gli adolescenti (“Did You See Me Coming?”, “All Over The World”, con riuso pop di Tchaikovsky). La loro speranza del primo posto nella classifica inglese sembra turbata dal nuovo Ronan Keating. Ci rimarrebbero malissimo, perché hanno sempre dichiarato di tenerci a bissare il loro unico No. 1 (“Very”, appunto, di contro a ben 4 No. 2). Ma, non per portargli sfiga, a noi sono sempre piaciuti in seconda fila, i Pet Shop Boys, con quel ghigno di chi evita i riflettori pur sapendo benissimo di aver lasciato il segno un’altra volta.
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