New Order
Technique
«Nothing in this world can touch the music that I heard when I woke up this morning».
Nel 1989, a Manchester, c’è di tutto. Non ci sono più gli Smiths, loro no. Ma c’è l’acid-house che sta iniziando a infiltrarsi tra le commessure degli edifici in mattoni rossi, c’è una scena di folle mescolanza tra rock, funk, psichedelia e dance che è prossima all’esplosione (Madchester, la chiameranno), c’è il baggy degli Happy Mondays prodotti da Peter Hook, c’è il balearic beat che da Ibiza ha superato le colonne d’Ercole e risalito l’oceano, con tutto il suo carico di visionarietà colorata ed ecstasy al seguito, c’è l’Haçienda all’angolo tra la Whitworth St. West e la Albion Street che immagazzina tutto e mescola senza criterio. E poi ci sono i New Order, chiaramente, autentici cardini che fanno da motore e da ricettore.
Hook, Sumner, Morris e Gilbert, che in parte gestiscono l’Haçienda con i proventi dei propri dischi, nel 1987 scoprono Ibiza e ci trovano tutta roba che a Manchester non c’era, o stava nascosta, dietro le nuvole o sottobanco: il sole, il mare, la trasgressione come regola, le droghe facili, e una scena musicale di ispirazione house difficilmente interpretabile ma che dimostrava una sua strana omogeneità. Il trait d’union del sound ibizeco tra Ottanta e Novanta, in realtà, è dato proprio dalla miscela furiosa e impertinente di quante più stimolazioni musicali era possibile raccogliere: electropop, dance, house, soul, latina, trance, new wave, il tutto shakerato in un delirio allucinogeno di cromatismi extra-strong. «È stata probabilmente la peggiore idea che abbia avuto in vita mia andare a Ibiza in quel periodo. Appena arrivammo lì, nell’87, iniziò la scena balearica, l’acid-house, l’esplosione dell’ecstasy. E andare lì alla nostra età... era quello che aspettavamo». Hook mente, e lo sa. È stata l’idea migliore che abbia mai avuto.
I New Order, sin da “Power, Corruption & Lies” (1983), sciolti a fatica i vincoli musicali (e non) con il passato recente da Joy Division, hanno fondato la loro poetica sonora sull’incrocio tra rock (in declinazione post-punk) ed elettronica. Ai tempi di “Technique” il crossover stilistico è il loro pane quotidiano, e una retrospettiva paurosamente gigante come “Substance” (1987) lo dimostrava in modo palese, riuscendo persino nell’impresa di riempire lo iato tra le due band e collegare questo sviluppo alla loro esistenza precedente accanto a Curtis. Sicché, in quell’anno di grazia che è il 1989, quando scoprono che Ibiza può essere portata a Manchester, tutto ai loro occhi combacia sotto il segno della mescolanza: il loro nuovo disco (in parte registrato nell’isola spagnola) sarà un impasto di tutto. La tecnica, avant toute chose.
Fin dalla copertina, disegnata da Peter Saville proprio sulla scia del lisergico colorismo ibizeco (e la busta interna del vinile riproduce l’immagine in altre tinte forti, in un’artefazione cromatica che ricalca quella ipnotica della pista da ballo allagata dalle luci), si intuisce che i New Order, qui, ingranano la quinta giocando tutto sul contrasto: le nove canzoni di “Technique” vanno lette come una folle altalena di suoni scomposti ma assurdamente compatti, di stili diversi che funzionano meglio se fatti scontrare tra loro. “Technique” non è e non può essere un album uniforme, in quanto la sua idea-base è programmaticamente quella dell’ibridazione.
Il dislivello tra le prime due tracce, ad esempio, è vistosissimo: “Fine Time” è la distanza minore che i New Order abbiano messo tra sé e l’acid-house, in una pazza zuffa di effetti, samples, inserti parlati, chitarre dissonanti, bassi furiosi, synth a briglie sciolte, direzione strumentale (il cantato è quasi assente), con un finale in cui è Hook a riportare a modo suo un accenno di melodia laddove era quasi sparita, in un delirio sperimentale che include l’intervento conclusivo di belati ovini sintetizzati (??!!); “All The Way”, al polo opposto, è new wave acustica, solare e melodica come solo i New Order sanno fare, con un ritornello che Sumner inerpica tra gli arpeggi della sua chitarra e le solite altissime linee di basso di Hook. Un pezzo che adesso le orde indie rock farebbero a botte per avere nella propria discografia.
I colpi di tosse (!) che aprono “Love Less” schiudono le porte all’altra perla acustica del disco, immalinconita dal cantato di Sumner e dalle sue liriche amare – incentrate sulla recente separazione dalla moglie –, il che aggiunge un altro squilibrio tipicamente neworderiano tra sfrenamento e nostalgia, vitalità e disillusione. “Technique” è anche questo: la mestizia dopo la festa. La nuova onda a tinte più scure di “Guilty Partner” e di “Dream Attack” confermano questo lato-B nuvoloso dell’album, regalando nuove sfumature tra l’interludio di chitarra classica nella prima (stupendo, poi, il finale in crescendo) e le tastiere a orchestrare l’assolo di elettrica nella coda della seconda.
A questa faccia guitar-based più vicina alle soluzioni di “Brotherhood” si intreccia quella esplicitamente dance: “Mr. Disco” e “Round & Round” sono le due punte synth-pop più orecchiabili del lotto, mentre “Vanishing Point” esaspera i richiami techno nello sfogo di un beat pesantissimo e di una lunga intro polimorfa. “Run”, tra gli apici dei New Order tutti, divisa in due parti, mestamente melodica la prima, strumentale e riconquistata dai synth la seconda, esalta in quell’accostamento di sconforto e liberazione finale.
Qui c’è il club e c’è la stanca routine quotidiana (e il loro strettissimo rapporto), c’è la spiaggia e c’è il cemento, c’è un mix musicale che ha fatto storia. E c’è l’apice dei New Order, che non è poco.
«You’ve got love technique».
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