Pet Shop Boys
Actually
Cade in questi giorni il ventennale del secondo disco dei Pet Shop Boys: dieci brani che hanno senz’altro segnato una tappa fondamentale nella storia del synth pop e che hanno forse costituito l’apice (di successo, ma non solo) del duo inglese.
Dopo l’inatteso boom di “Please” nel 1986, Neil Tennant e Chris Lowe decidono di non andare in tour e di concentrarsi nella scrittura del secondo album. Ne esce un progetto più ambizioso e sperimentale, forse non omogeneo come l’esordio, ma a suo modo originalissimo. Le influenze che stanno alla base di “Actually” provengono dalla disco italiana (già presente nella b-side “Paninaro” del 1986) e dai primi gemiti della house. I Pet Shop Boys, da parte loro, ci mettono un tocco potentemente fosco negli arrangiamenti, qua e là rinfoltiti da suoni orchestrali per ottenerne un effetto più drammatico, e un atteggiamento sempre svagato, apparentemente distratto, ma di fatto colto e consapevole.
Si parla di thatcherismo, di aids, delle influenze negative della dottrina cattolica, di solitudine. Mentre il resto del mondo pop celebra i fasti di un’epoca edonista e godereccia, variopinta e artificiale, i Pet Shop Boys scelgono uno stile sobrio e schivo. La copertina, bianca e minimale, è un inno all’ennui: Chris ha uno sguardo severo, Neil sbadiglia. Niente di più anticonvenzionale. Mentre le melodie dei Duran Duran e dei Culture Club si sfogano in estroversi colorismi, quelle dei Pets si chiudono in sonorità spesso incupite e notturne, se non sinistre, come nell’apripista “One More Chance”, dove vengono unite, tra beat disco e frenate di macchine, paranoia e divertimento, noir e house.
“Shopping” ripropone una sonorità torbida, con Chris che riesce ad accompagnare magistralmente il tono sarcastico di un Neil snervato. L’esito è un inno anti-eighties, dal testo paradossale. Volendo scrivere una canzone sul mito dello shopping, Neil scopre di non avere nulla da dire: nel ritornello, allora, fa un nasale spelling del titolo, mentre nelle strofe parla della vendita da parte del governo delle industrie statali. Le tastiere suonano come una chitarra, le decorazioni sono torve.
I grandi successi del disco sono altri: “Rent”, canzone d’amore mercenario, mid-tempo rassegnata e buia, ispirata alla disco italiana di metà ottanta che giocava proprio al confine (alquanto barocco) tra sonorità imbarazzantemente vistose e fraseggi loschi, tra pomposità e cupezza. Qui domina l’aspetto introverso: i samples di fiati nella coda inabissano il pezzo verso stazioni grigie e impersonali (come nel video di Derek Jarman). “It’s A Sin” è la hit del disco: una intro maestosa apre un pezzo solenne e violento, sospeso in un clima tragico e ferrigno, che si sfoga in una delle melodie più memorabili degli anni ottanta. Nel finale Neil pronuncia in latino il Confiteor, mentre le tastiere mimano organi chiesastici.
Più tradizionali gli altri singoli: “What Have I Done To Deserve This?” (con Dusty Springfield) e “Heart”, dal clima più evasivo. Le perle chiudono i due lati del vinile: “It Couldn’t Happen Here” è scritta con Ennio Morricone e arrangiata da Angelo Badalamenti (Twin Peaks). Pezzo scurissimo, con beat profondi e con gli archi che intensificano un clima appesantito. Il ritornello appartiene a una canzone (in italiano) scritta a tavolino da Morricone per i Pets, mentre le strofe sono del duo inglese. Ne esce un’assurda (ma intensissima) commistione di classica italiana e synth pop britannico. Uno degli episodi più originali, lirici e lancinanti dei Pets e del pop eighties. Lo stesso concetto di pop, qui, sembra davvero portato ai suoi estremi, per impegno e complessità musicale.
“King’s Cross”, in coda, è la punta di diamante, grigia e autistica, introversa e desolante, fortemente antithatcheriana. È il pop della disperazione non urlata, di una sofferta segregazione, delle voragini della solitudine. Sfondo, una Londra dispersiva e fredda. Inizia con beat oscuri, samples di fiati, tastiere che sussurrano accordi in minore e un basso energico che, unito a una sorta di chitarra tremula sullo sfondo, rendono il pezzo sfocato e allucinato.
I Pet Shop Boys hanno giocato molto con l’understatement (di sé, di tutto), ma ne hanno ottenuto più incomprensioni di quanto potessero prevedere. L’importanza del loro contributo per gli sviluppi del pop elettronico è però evidente in un album come “Actually”: melodico e orecchiabile (con tre numeri uno in UK), ma assieme sdegnoso e disamorato di ciò che sembra esaltare. Con uno stile rigoroso che il pop di oggi si sogna.
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