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A Jeff Buckley

Jeff Buckley

Figlio d’arte (e che arte) pur mantenendo un rapporto inesistente con il padre, Jeff Buckley è uno degli artisti che fanno parte della schiera di coloro che sono entrati nella leggenda della musica prima ancora di scriverne la storia. Cantautore dalla sensibilità profondissima e con una voce che viene presa ad esempio da innumerevoli tentativi di imitazione, Buckley imbraccia la chitarra a sei anni, seguendo le orme del padre Tim. Nel 1990 si trasferisce a New York, dove conosce coloro che lo aiuteranno ad entrare nell’universo musicale vero e proprio. Dopo un EP, Live at Sin-é, pubblicato nel 1993, dove già si trovano Mojo Pin e Eternal Life, che troveranno spazio nel suo album d’esordio vero e proprio, uscito per Columbia nel 1994: Grace.

Prodotto da Andy Wallace, che aveva già mixato una bazzeccola come Nevermind dei Nirvana, l’album dimostra le eccezionali potenzialità di Buckley come musicista, cantante e interprete di cover indimenticabili: la sua versione di Hallelujah di Leonard Cohen è considerata da molti come la sua migliore performance su disco. Le vendite di Grace inizialmente non sono entusiasmanti, ma gli ammiratori del disco portano nomi come Bob Dylan, Jimmy Page e David Bowie. Il tempo è galantuomo, e Grace raggiunge il successo in Francia e soprattutto in Australia, dove vince sei dischi di platino.

Dopo due anni di tour in giro per il mondo Buckley si ferma per scrivere e registrare il nuovo album. I primi risultati in studio di quello che avrebbe dovuto chiamarsi My Sweetheart the Drunk non convincono il nostro, che pianifica nuove sessioni di registrazione: non fa in tempo a completare il lavoro, annegando in un canale secondario del Mississippi durante un bagno che decide di fare vestito dalla testa ai piedi. Le uscite postume sono sterminate: concerti, demo, dvd e soprattutto (Sketches from) My Sweetheart The Drunk, le registrazioni di ciò che sarebbe stata la seconda tappa della sua breve ma intensissima carriera.