R Recensione

8/10

Dulcimer

And I Turned as I had Turned as a Boy

In uno dei tanti cottages di un piccolo villaggio di campagna,disteso fra le amene ccolo villaggio di campagna perso fra alberi e braccia di una collina inglese, si ritrovavano a suonare e cantare, nelle quiete sere primaverili ed estive, tre giovani amici, Pete Hodge, suo cugino Jem North e Dave Eaves; e proprio in un cottage i futuri Dulcimer,sul finire del 1969,presero forma.

Pete Hodge, scoprì per caso che suo cugino Jem suonasse il basso,proprio nel periodo in cui con l’amico Dave stava cercando di metter su una band.Ottimo chitarrista(suonava sia la 6 che la 12 corde), mandolinista e compositore,a Pete Hodge si devono la gran parte dei brani che confluirono nel loro unico album; al produttore Larry page, l’allora eminenza grigia dei Troggs,il talento del trio non sfuggì e in qualità di loro manager,riuscì a farli scritturare,nel 1970, da una piccola label inglese,la Nepentha Records:e nel 1971,i Dulcimer esordirono con lo splendido ”And i turned as I had turned as a boy”.

Autori di un purissimo folk tutto acustico,a sorprendere sono le atmosfere sospese tra cielo e terra,tanto rurali,campestri nelle liriche,quanto celesti negli arrangiamenti; è infatti il magnifico ed efebico timbro vocale di Dave Eaves,a conferire all’intera opera quella sfumatura angelica e onirica,tale da renderla,appunto,un capolavoro.Persino l’attore britannico Richard Todd,apparve in un paio di brani con un austero recitato,uno dei quali,costituisce l’ouverture dell’album “Sonnet to the fall”,un melanconico omaggio alla quattro stagioni reso indiscutibilmente poetico dalla sublime voce di Dave :coadiuvate dall’intervento dell’attore e dalle backing vocals di Pete Hodge,progrediscono su una base di strings totalmente acustica,senza traccia di percussioni,come anche nella successiva “Pilgrim from the city”, una sorta di acid folk acustico,energico pur senza l’uso di strumenti elettrici o percussivi.

La lunare “Morman’s Basket”,sia per l’arrangiamento stesso,stavolta col delicato intervento di Jem North allo xilofono e alle percussioni soffusissime(pare fossero noci di cocco atte ad imitare lo scalpitare del cavallo!) sia per un’analogia nel cantato e nell’uso del mandolino,molto ricorda i contemporanei Forest,seppure,ancora una volta a stupire è lo straordinario timbro di Eaves: ad un’ascoltatore ignaro,potrebbe addirittura sembrare femminile.Debitrice ai Byrds per la scelta dei suoni,con qualche reminescenza Dylaniana,un’armonica scandisce il ritmo di “The Ghost of the Wandering Minstrel Boy”,su di un testo prossimo ai landsacapes degli Amazing Blondel.

Emozionale ed evocativa,stilisticmante vicina ai Tudor Lodge,forse la successiva “Gloucester City”,che ritrae al meglio la quieta serenità campestre,con l’ormai collaudata formula della chitarra a 12 corde e di contrappunti vocali quasi ineffabili,può definirsi uno dei pezzi più belli del disco.Ancora il mandolino tesserà le trame finissime di “Starlight”,mentre il basso sensuale ne sancisce l’andamento:ballata notturna indefinita,atemporale, appunto il chiarore delle stelle e la trasparente nostalgia delle voci,riesumeranno passati sogni e illusioni.Sogni e chimere che i gitani di “Caravan”,introdotti dal recitativo di Richard Todd,contribuiranno ad alimentare;è un girotondo fantastico accompagnato dall’evanescente dulcimer di Pete Hodge,da accenni di armonica e xilofono,in una tessitura melodica che inevitabilmente richiama i grandi Simon and Garfunkel,sebbene,poco dopo,la suite evolva in una quasi-cavalcata celtica .

Sono solo istanti di passione che si acquieteranno nuovamente nella conclusione che si scioglie in un sound molto simile a quello dei SallyAngie.Mollemente solare,”Lisa’s song” è un piccolo viaggio hippy,ironico e breve che cederà il passo alla canzone,a mio modesto parere,più bella e commovente in assoluto,in virtù proprio di arrangiamenti e scelte armoniche che toccano le corde più sensibili dello spirito:”Time in my life” è la celebrazione della spensieratezza,della fugacità di ogni gioia,dei tesori semplici “..ladybirds and butterflies..”che ogni stagione dona,consapevoli che il tempo muterà incessantemente portando ogni istante via con sé.Dalla gioia delle piccole cose a quelle più lisergiche,è solo un istante:il tamburello introdurrà la particolarissima “Fruit of the Musical tree”,canzoncina deliziosa che sembra scaturire da un carillon.Il dulcimer di Hodge viene evocato come una sorta di divinità portatrice di musica dalle straordinarie vocals di Eaves, che sempre più si liquefanno fra maschile e femminile;e quale più appropriata fantasia stilistica se non una consimile allo Shakespeariano “Sogno di una notte di mezza estate”,qui timidamente accennato dalla comparsa di un personaggio come Titania?

Cala la malinconia come un sipario in “While it lasted”, tutto giocato su fraseggi quasi strazianti di mandolino,romantico e strappalacrime brano di amore perduto,dell’amarezza e della nostalgia che eventi ormai tramontati di serenità lasciano.Da notare,come nel giungere al termine del pezzo,vi siano addirittura reminescenze vocali identiche a quelle di Marc Bolan! Non sempre l’amore che finisce genera rimpianto e la conclusiva “Suzanne”,a modo suo quasi in stile country,leggera e lieta,ne è la riprova.Inutile ripetere come “ And I turned as I had turned as a boy”,costituisca una rarità,sia per la sua particolare e semplice bellezza,sia come mero oggetto di collezionismo;introvabile la stampa inglese per la Nepentha,mentre l’unica offerta in commercio,seppur ormai quasi irreperibile essa stessa,è la ristampa d’epoca,da parte dell’americana Mercury,che ne acquistò all’esordio dell’album,i diritti per la distribuzione d’oltreatlantico.

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C Commenti

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Giuseppe Ienopoli alle 13:17 del 14 ottobre 2017 ha scritto:

Incontro felice e casuale, in terra di Brionia, con questo gioiello musicale ... un alternarsi di atmosfere molto suggestive e di suoni smaglianti nonostante l'età.

Adatto alla stagione in corso ... da rispolverare subito ... !