R Recensione

10/10

Spyrogyra

A Canterbury Tale

Estate1967: in questa stagione in cui l’abbagliante sole nascente dell’amore (da intendersi nel’accezione hippy tout court) e del frizzante ottimismo che gli imminenti cambiamenti in campo socio-culturale avevano apportato, s’inserì una caleidoscopica e lisergica colonna sonora ad opera di un movimento che proprio in quest’atmosfera di confusione technicolor vide la distorta alba:l’acid folk.

Fra i proseliti di questa nuova era di pace,amore e droga,furono i giovanissimi Spirogyra ad essere permeati più che mai dallo “spirito d’amore”; Martin Cockerham,futuro lead singer e fondatore del gruppo, che come buona parte dei giovani d’allora seguiva l’onda hippy fluttuare in  esotici quanto allucinogeni viaggi alla volta di Gerusalemme,Israele,Grecia,India, rimase abbastanza nella natale Canterbury da formare,qualche anno più tardi,in seno alla celebre università,una band  con alcuni compagni di studio:Mark Francis,coofondatore che si interessò,però, soltanto inizialmente,troppo preso  dai suoi studi accademici per rimanervi in qualità di membro fisso,Barbara Gaskin,(vocals,piano),Steve Borrill (basso),Julian Cusack(violino,pianoforte).

La loro crescente reputazione si propagò non solo all’interno del circolo universitario,ma anche al di fuori,tanto da giungere all’orecchio di Sandy Roberton,manager e produttore degli allora osannati Steeleye Span:fu dunque tramite quest’ultimo che il loro album di esordio St.Radigunds (dal nome della via accanto alla suggestiva cattedrale di Canterbury dove i 4 ragazzi dividevano la casa),vide la luce nel 1971 per la B& C Records;la freschezza e l’originalità della loro proposta si evidenziava già in pezzi  come la profetica “The future won’t be long””dal  mood fosco, scandito dall’intreccio vocale  Cockerham/ Barbara Gaskin,la cui voce pura e argentea sovrastava,pur nella sua trasparenza quella volutamente sgraziata di Martin , tutta protesa ad ammonire l’umanità,mentre,con un andamento via via più drammmatico,il vorticoso e frenetico violino che ben metteva in luce il talento del suo esecutore Julian Cusack,dilagava fino alla conclusione del brano.

Ospite d’eccezione alla sezione di batteria/percussione , Dave Mattacks dei Fairport Convention,fu  presente nell’intero album.”Island” e “Magical Mary”,notturne e lunari visioni care ai contemporanei e visionari Comus,dominate dal deliquiante e  stralunato violino,bellissime parentesi di rituali perduti,lasciavano il posto alla cosmopolita “At home in the world”,melliflua ballata  accompagnata da un delicatissimo pianoforte.Sebbene l’approccio innovativo di St.Radigunds raccolse consensi e critiche favorevoli,proprio la sua singolarità ne impedì l’inserimento nel corrente mainstream; continuamente in bilico(secondo i parametri dell’epoca), tra folk e rock acustico,senza essere totalmente l’uno o l’altro,le radio ne elusero la diffusione in quanto di difficile catalogazione

Eppure la loro genialità era stata colta e l’ instancabile attività live di supporto a bands maggiori ne fu la testimonianza;per nulla scoraggiati dalla scarsa promozione del loro primo album,la fine dell’inverno del 1972 portò con sé anche la loro seconda “fatica“ Old Boot Wine. Tanto commovente quanto luminosamente hippy”Don’t let it get you” stilisticamente  più rock ma decisamente strappalacrime,e il caratteristico intersecarsi  tra un Cockerham particolarmente “ruvido”e una Barbara Gaskin più evanescente che mai,sembra preparare,con la sua leggerezza,l’approccio più impegnato politicamente di “Disraeli’s problm”, rivolto all’allora segretario inglese Reginald Maudling;i toni sommessi che investono ogni strumento e voce si perderanno invece nella seguente”I hear you’re going somewhere”che insieme a “Turn again lane”,ne faranno i pezzi più rappresentativi e  caratterizzanti dello stile e del sound del quartetto.

Archi austeri ma diabolicamente folk,ritmi spezzati e repentini cambi di tempo,ben si amalgamano con le isteriche evoluzioni vocali maschili,mitigate ma contemporaneamente rafforzate dalle effimere controvoci femminili;guizzante il flauto sopra una cavalcante chitarra acustica che solo in “Melody maker man”,riuscirà a trasformarsi come per incanto in elettrica, senza quasi percepirne il mutamento,tanto l’impasto è superbamente omogeneo e originale.A tal proposito,l’intero passaggio che forma una sorta di refrain,verrà ripreso tale e quale,ma più di dieci anni dopo, dai Current 93 di David Tibet (a cui però,a parziale giustificazione, va il merito di aver “rispolverato”e riscoperto “stelle” dimenticate del folk originario).

Feconda e inesauribile pareva essere la vena compositiva dei 4 musicisti di Canterbury  tanto che il materiale per Old Boot Wine era addirittura in eccedenza:difatti,accanto ad inediti che uscirono quasi “sottovoce” in una raccolta intitolata “Burn the bridges”,i cui brani non furono mai eseguiti dal vivo,altri andarono a confluire nel loro terzo e finale album apparso nel 1973 “Bells,boot and shambles”.Il destino avverso fece in modo che nemmeno quest’ultimo riuscì a trovare canali di sbocco e risposta da parte di un’audience perennemente,fatalmente impreparata alla loro musica;un’atmosfera più malinconica,riflessiva e meno abbagliante dei precedenti lavori,percorrerà tutta l’opera.Sembra quasi che la rassegnazione  sia lo spirito preponderante,come“ An everyday consumption’s song” dimostra o come “The furthest point”,dove  una nostalgica tromba e un flauto lunare ne accanetuerà l’andamento elegiaco;sono divagazioni sulla vita,sulla società,sulla politica,”chiacchiere”,come Martin Cockerham stesso ammette nel suo volutamente “sciatto” “spoken words” sopra un liquido fraseggio di piano che sfocerà nella corale tristezza di fiati e voci.

Classicistico,quasi ottocentesco il “pianto” del violoncello  nella magnifica”Old Boot wine”,autunnale cantico interamente eseguito da lady Barbara Gaskin (stavolta anche al pianoforte),i cui vocalizzi puri e leggiadri si armonizzano,si cullano e si fanno tutt’uno con gli archi presenti.Sommessa come una sorgente che mormora “Spiggly a tratti richiama alla memoria l’indimenticabile Nick Drake.

Una sorta di suite divisa in 4 parti, “The Western world”,introdotta da una esilissima,impalpabile linea vocale,a cui la grinta tutta acustica della chitarra si contrapporrà e ove graduatamente,batteria e percussione, violini e  flauti si amalgameranno,si rincorreranno in successive reprises che condurranno alla conclusione dell’opera.Ma ahimé,anche alla fine della band stessa,che proprio in quell’anno si sciolse:ognuno seguì le proprie inclinazioni e vicissitudini personali,che portarono i singoli membri lontano da quelli che furono i grandi,incompresi Spirogyra. E le opere di  coloro che per triste sorte(alquanto comune) furono “bistrattate” dal loro tempo,forse troppo ricco di innovazioni per occuparsi di artisti più di nicchia, hanno,ai giorni nostri acquisito grande valore collezionistico,nonché promosse al ruolo di pietre miliari dell’acid folk.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 4 voti.
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REBBY 6,5/10
loson 7/10

C Commenti

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Arnold Layne alle 10:21 del 11 gennaio 2008 ha scritto:

Wow

Per la miseria! Un gruppone esagerato, del quale ho soltato il St.Radigunds e mi piace un casino..questo mi manca, ma se gli dai addirittura il massimo beh, allora DEVO procurarmelo! Recensione incredibilmente soddisfacente, complimenti come al solito!