Paradise Lost
Draconian Times
Draconian Times è l’ultimo disco propriamente ‘metal’ dei Paradise Lost, almeno nell’accezione che il termine aveva riferito alla band anglosassone. Arriverà subito dopo, infatti, il viaggio altalenante nella musica electro-pop, lo smarrimento successivo e poi una specie di ritorno alle origini, ma sono tutt’altro e, almeno in questa sede, non ci riguarda. Prima, invece, c’era stato un passaggio sempre più graduale dagli esordi violentissimi (sotto diversi punti di vista) , al classico Doom Metal (che poi per loro classico non fu mai) e poi la creazione di quel genere Gothic (e parliamo di Gothic Metal, perché il Gothic Rock è tutt’altra cosa, nonostante oggi si faccia grande confusione) che li avrebbe resi speciali, imitati e, soprattutto, degni di portare la bandiera di rappresentanza della musica estrema inglese, lo stendardo di una scena ormai quasi defunta.
Ma al di là del metal sarebbe bello che questo disco lo ascoltassero tutti, che superasse i confini di etichetta e andasse a fare scuola di creatività musicale ovunque. Questo disco, perdonate la soggettività, è un capolavoro assoluto, senza alcuna limitazione.
Se è vero che è un disco ‘facile’, easy listening , per gli avvezzi alle intransigenze norme musicali dell’estremo versante dell’heavy metal, al contrario si rivela un disco ostico per un ascoltatore medio. Ma la sua forza è proprio lì. Sin dalle prime note i Paradise Lost presentano al pubblico il loro marchio di fabbrica che non è una distorsione, non un assolo di batteria, nemmeno è, in realtà, quel delicato pianoforte che sentiamo: è la vena di pessimismo senza via d’uscita che contraddistingue e permea tutta l’opera. Enchantment è un pezzo raffinato, anche nei cori, anche nel violento cantato di Nick Holmes, autore di tutte le liriche, è un brivido di angoscia che sale dal basso, dai meandri della disperazione umana, sia esso urlato su ritmi vivaci, come Once Solemn, sia nella più cadenzata Elusive Cure, perché, è il caso di dire, in un disco tanto vario nel genere, la ‘musica’ non cambia: non troverete, qui dentro, un solo bagliore di speranza.
Criticata è Forever Failure, bellissimo pezzo ‘lento’ che si apre sulla voce di Charles Manson, presa dal documentario britannico “Charles Manson – The Man Who Killd The Sixties”, una voce agghiacciante che recita dapprima “Understand procedure, understand war, Understand rules, regulations; I don't understand sorry” e poi, nella parte finale, una terribile “ I don't really know what sorry means” accompagna le note struggenti del brano.
Yearn For Change è la disperazione urlata a ritmo di rock in versione lostiana, “Life is all the pain we endeavour” e “prayin’ for a change” sono frasi ripetute all’ossesso (come anche “heart’s beating” nella bellissima The Last Time) e non lasciano alcun dubbio sul messaggio, mai, però, banale o logoro. La poesia dei testi non è mai messa in discussione, nessuna storiella, nessun dramma raccontato dieci volte, solo un turbinio di emozioni negative, sposate con le tristissime distorsioni di Gregor Machintosh, talentuoso chitarrista e compositore.
I See Your Face è il gioiello del disco. Nasce quasi per accompagnare l’ascoltatore verso la fine del disco, dove il compimento del disco trova la massima espressione in Jaded, ma non è solo un brano di supporto, è forse la più rabbiosa manifestazione di disagio, rabbia urlata senza mezzi termini, senza le distorsioni vocali di ShadowKing (altro splendido pezzo) e senza mezzi termini.
Il disco non si avvale più della batteria di Matt Archer, diventato intanto, ironia della sorte, cameraman per MTV (ulteriore segno di quanto poco paghi la musica non commerciale), ma nessuno si è lamentato del pur ottimo Lee Morris, che forse ha contribuito più di quanto si possa immaginare alla confezionatura di questo piccolo gioiello.
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