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R Recensione

9/10

Pelican

The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw

Chi pensa che “ascoltare musica” non sia nulla più che un buon sistema per riempire l’aria o imparare mentre ci si rade la mattina un nuovo ritornello da fischiettare per tutta la giornata è meglio che lasci perdere queste righe e quest’album. Chi invece pensa e crede che tra le note di un bravo musicista o di un grande gruppo si nasconda un’anima e un mondo da scoprire, farebbe bene a procurarsi al più presto questo album dei Pelican.

C’è poco e tanto da dire su questo disco dal titolo pressoché intraducibile: il poco è che è il secondo album di una band di Chicago che propone un metal strumentale inseribile nell’attuale panorama post-metal, ma con una forte impronta personale, costruita mediante composizioni lunghe che alternano scatti rabbiosi ad aperture melodiche e quasi psichedeliche, il tutto in una cornice un po’ lo-fi e casinara, ma non per questo disordinata.

Il tanto è che i Pelican riescono in maniera sopraffina e magistrale a trasformare le loro idee musicali in visioni per l’ascoltatore, a creare, per chi sa come sintonizzarsi sulle loro frequenze, un flusso ininterrotto di suggestioni ed emozioni, per arrivare ai quali non basta di certo avere orecchie funzionanti, e neanche è sufficiente che queste siano ben collegate al cervello (cosa già rara, di questi tempi): per entrare nell’onirismo del quartetto bisogna infatti chiamare in causa anche il cuore.

Altrimenti è impossibile avvertire la pressione sonora prodotta da “March To The Sea”, quasi come se ci si trovasse a camminare a cento chilometri sotto al livello del mare, o avvertire la delicatezza dell’intro di “Autumn Into Summer”, resa più preziosa dall’esplosione di riff e note che la segue. C’è il tempo di una breve pausa, un intermezzo senza titolo, prima di riprendere il viaggio con “Red Ran Amber”.

Ma è musica che non vale la pena di cercare di spiegare o di capire a tutti i costi, perché le emozioni che regala questo disco non si lasciano legare sulla carta, ma svaniscono terminato l’ascolto. Si galleggia durante tutto l’album sul confine tra reale e immaginario, tra un’emozione e l’altra, finchè “Sirius” – una delle canzoni di chiusura più azzeccate di sempre – dopo averci sparato ancora più in alto di quanto tutto il resto del disco ha fatto, ci schianta di nuovo sul mondo reale, e ci lascia – ma solo fino ad un nuovo ascolto – il ricordo di un viaggio meraviglioso.

V Voti

Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 8 voti.
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luca.r 6/10
ThirdEye 7,5/10

C Commenti

Ci sono 6 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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swansong (ha votato 8 questo disco) alle 13:12 del primo luglio 2008 ha scritto:

Stupendo!

Solo una spannetta inferiore ai due capolavori (allo stato inarrivabili) dei Red Sparrowes...

Marco_Biasio (ha votato 9 questo disco) alle 21:52 del 15 agosto 2008 ha scritto:

*_*

Grande centro, Filippo, dovresti scrivere più spesso. Questo disco è meraviglioso. Meraviglioso. Post-metal che riesce a non essere nè Neurosis, nè Isis, nè Godflesh, nè Cult Of Luna, nè Minsk, nè Red Sparowes, se non tutte queste cose assieme con un piglio del tutto personale. Canzoni semplicemente bellissime, dilatate oltre ogni misura pur non essendo assolutamente drone, aperture psichedeliche che solo un Syd Barrett del Nuovo Millennio si sarebbe sognato, e quegli ultimi tre minuti di "March To The Sea" che mi spediscono in alto, nel microcosmo...

swansong (ha votato 8 questo disco) alle 12:47 del 12 maggio 2009 ha scritto:

Riascoltato di recente, alzo il voto. 9 secco! Soprattutto se confrontato col successivo, impalpabile, "City of Echoes" (6,5)

Marco_Biasio (ha votato 9 questo disco) alle 12:14 del 8 novembre 2009 ha scritto:

L'ultimo disco è un cesso assoluto, impresentabile. Fa male al cuore pensare che sia la stessa band capace di quest'opera e di "Australasia". Stroncatura a breve su queste pagine.

luca.r (ha votato 6 questo disco) alle 9:48 del 17 novembre 2009 ha scritto:

mah..

sicuramente non male, resta un discreto album e nulla più, imho. Ben lontano da 'the earth is not a cold place' degli eits che per me resta l'apice di certo post-aternative-etc. Restando in tema di rock strumentale comunque (pur molto più variato e intriso di commistioni fusion/jazz), i Gordian Knot restano di un altro livello; questi li vedono giusto con il binocolo.. ed in lontananza.

B-B-B alle 20:41 del 19 giugno 2015 ha scritto:

Devo ancora ascoltarlo, sembra interessante, molto interessante.