R Recensione

8/10

Celtic Frost

Monotheist

Gli svizzeri Celtic Frost sono stati una delle band più importanti del'ultimo ventennio per quanto riguarda il panorama metal (e non solo quello), vivendo alterne fortune, ma realizzando almeno un album che a pieno titolo si può considerare storico e fondamentale.

Da quel fantasmagorico ed esuberante lavoro (Into The Pandemonium - 1987) sono trascorsi quasi vent'anni, per l'appunto, e la band capitanata dal granitico Thomas G. Warrior solo nel 2006 sembra aver ritrovato l'energia e l'ispirazione per ribadire e consolidare una posizione che si era apparentemente offuscata.

"Monotheist" è un'opera piuttosto radicale e concettualmente ben calata nel contesto socio-culturale odierno, giacchè prende spunto da tematiche relative alle religioni monoteiste e ai rapporti tra mito e teologia con un approccio spesso cripitco ed oscuro.

A corroborare l'idea che i Celtic Frost sono stati una realtà basilare del sound metal contemporaneo, il nuovo album è stato supportato da un battage pubblicitario notevole e da una serie di apparizioni a festival di genere che non solo ha fatto scoprire all'ultima generazione questi tre guerrieri sonici, ma ha anche rinfrescato la memoria alla generazione precedente.

Per quanto "Monotheist" sia abbastanza lontano dalla sperimentazione e dalle contaminazioni del grande "Into The Pandemonium", il marchio di fabbrica di Warrior e soci non ha perso smalto e si concentra su pochissimi elementi che costituiscono la nervatura centrale di una musica robustissima, compatta e piena di sfumature originali. Che se ad un primo ascolto possono dissimularsi in una valanga di chitarre distorte fino alla saturazione e di rullate di batteria tipo treno che deraglia, alla lunga emergono nel dettaglio.

Basti citare il brano di apertura "Progeny", che martella il suo riff quasi monocorde sostenendo il grugnito cavernoso di Thomas G. Warrior, con un incedere spezzettato che non dà alcuno spazio alla melodia, se non per aprirsi verso la fine in un bellissimo e struggente assolo che combina chitarra e basso in modo magistrale. O se vogliamo, la lenta e mastodontica "A Dying God Coming Into Human Flesh", completamente opposta come atmosfera e come costruzione strumentale, che cadenza tra bagliori onirici il suo recitato fino ad esplodere in un maglio di distorsione e di ritornelli urlati dall'altrove. Intrigante anche qui l'intreccio iniziale tra chitarra e basso, che mostra musicisti sicuramente più raffinati della media, seppure votati al martirio delle corde.

E poi la lunga suite meditabonda e profetica di "Synagoga Satanae" o la cavalcata di "Domain Of Decay", che se da un lato riprendono temi familiari a chi già conoseva i Celtic degli anni '80, dall'altro rinnovano i canoni del death e del doom facendoli propri e riversandoli in una colata lavica di follie sonore.

Non per tutti i palati e forse ostico anche per le orecchie abituate a certo metal, ma certamente un disco da celebrare come un grande ritorno, non fosse altro che per la sua carica di creatività mai banale e tarata su parametri che già i Celtic Frost di vent'anni fa avevano visualizzato con enorme perspicacia.

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