Wilco
Wilco (the Album)
Gli album omonimi solitamente rappresentano il primo passo verso il mondo discografico. Tante le figure che hanno debuttato marchiando con il proprio nome la copertina del sospirato primo album. Alcuni di questi hanno proseguito numerando le produzioni successive ( i Led Zeppelin per i primi quattro, i Chicago quasi vita natural durante). Altri hanno invece deciso di adottare questa scelta ad un certo punto della propria carriera, per fare il sunto della stessa. Coloro che appartengo a questa categoria hanno, infatti, quasi sempre voluto fornire un bignami del proprio stile, spesso partorendo –tuttavia- album di maniera.
Alla, pare inevitabile, scelta dell’eponimo, non si sono sottratti i Wilco che hanno alle spalle poco più di un decennio di attività con riscontri di critica e di pubblico invidiabili soprattutto nei tempi odierni. Difficile trovare band che possono vantare negli anni ’00 un trittico di album come Yankee Hotel Foxtrot (la svolta che ha fatto strabuzzare le orecchie) A Ghost Is Born (la sorprendente continuazione) e Sky Blue Sky (un piacevolissimo ritorno su lidi più classici della tradizione a stelle e strisce)
Per l’album del cammello (inevitabile, visto la copertina) siedono in cabina di regia Jim Scott e la stessa band, che hanno registrato nello studio dell’amico Neil Finn ad Auckland .
Allora anche i Wilco hanno fatto il loro bel riassuntino strizzando dieci anni di carriera in 43 minuti come tutti gli altri? Si e no. Si, perché non c’è niente di nuovo. No, perché qui l’effetto copia carbone non c’è. O, almeno, sono talmente bravi che lo nascondono benissimo.
E già. Perché ciò che colpisce di questo album è che i Wilco pare non riuscirebbero a fare qualcosa di bruttino neanche se si impegnassero. La voce di Jeff Tweedy è diventata di famiglia, Nels Cline non trova praterie spianate ma lascia comunque il segno e il resto della band è semplicemente eccellente. È la prima volta che hanno registrato due album consecutivi con la stessa formazione. Immaginiamo quindi un clima rilassato, dove il capobanda può condurre serenamente la ciurma ben consapevole di ciò che è in grado di fare.
I primi tre pezzi garantiscono che il gruppo è sempre in forma. La band-title-track è un incalzante cherry-up che ci ricorda che anche se tutto ti è andato in vacca "Wilco will love you baby”; Deeper down è un elettro-acustico malinconico che si connota per inusuali pause; One wing è la ballata in crescendo che ti aspetti da loro ma che non delude.
Tutto il disco poi continua pervaso da un’ispirazione che i 6 componenti dosano da consapevoli artigiani.
Le irregolarità di YHF le ritroviamo in Bull Black Nova e i riferimenti ai Beatles non mancano: il singolo You never know guarda un po’ a George e nel finale trita cuore di Everlasting Everything Tweedy sforna un pezzo sul fisiologico tramonto dell’amore facendo convivere in lui perfettamente gli spiriti di John e Paul senza scimmiottarli. Il pop canzonato a dovere viene rappresentato dai quadretti della già citata You never know e dalla melodia acchiappa tutti I’ll fight. Sonny Feeling è un raggio di sole musicale, e se Tweedy cinguetta con Feist in You and I in modo un po’ prevedibile ma mai disprezzabile, con Solitarie arriva il gioiellino dove i Beach Boys vanno a braccetto con Nick Drake.
Ovunque c’è un’ispirazione che fortunatamente non pare tramontare. Ancora un disco che rinverdisce la migliore tradizione folk-rock, qui rappresentata in chiave alternativa ed erede alla lontana dello status che gli zii Bobby e Neil avevano tra i sessanta e i settanta.
Beninteso, la mancanza di novità assoluta e alcune scelte già sentite (l’intro di chitarra di I’ll fight) non possono far assegnare il premio del disco da portare sull’isola deserta. Però i Wilco su quella famosa isola ci devono stare, scegliete voi l’album. Considerando il ben di dio che hanno sfornato in precedenza difficilmente sarà questo. Però dispiacerà un po’ non portarsi dietro il cammello.
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