The Band
Music From Big Pink
Inizialmente guardato con un pizzico di sospetto da un pubblico che non si era ancora ripreso dai postumi della sbornia psichedelica presasi lanno precedente ricordiamoci che siamo ancora in pieno 68 Music From Big Pink è un piccolo grande disco, uno di quelli che entrano nellanima e al tempo stesso fissano le direttive che da lì a poco centinaia di musicisti non esiteranno a seguire con entusiasmo. Non stupisce pertanto che sia il punto di partenza obbligato quando si intende parlare della Band e, più nello specifico, della genesi di un sound fra i più influenti e riconoscibili di tutti gli anni 60s.
La Music From The Big Pink segue precise coordinate geografiche e culturali per mostrarci un luogo che prima non esisteva, se non nelle nostre menti. Un luogo in cui il tempo si è fermato, in cui la mitologia ha ancora il potere di destare stupore ed ammirazione, in cui lagire umano è scandito dal ciclo delle stagioni, dalla terra, dalle piogge, dalle praterie. Un luogo in cui convergono tutti i possibili passati (anche quelli inventati, perché no?) e le favole raccontate nellinfanzia. Un luogo nel quale, grazie al bagliore della memoria, ogni cosa, anche la più semplice e banale, riacquista nuova luce, nuova vita. Così è pure la musica del quintetto: umile, favolistica, intrisa di uninnocenza perduta e un candore che latitano in molte altre opere di quegli anni. Una musica che non ha nulla da spartire con le audaci sperimentazioni tonali di Velvet Underground, Silver Apples e Kaleidoscope ma che, anzi, assieme al meno riuscito John Wesley Harding di Dylan (uscito pochi mesi prima), si pone come una suggestiva quanto acuta riscoperta delle radici musicali proprie di unAmerica che si assurge a modello culturale e musicale prediletto.
E proprio nella sobrietà e nella purezza della tradizione che il chitarrista-compositore Robbie Robertson e i suoi quattro insostituibili compagni di viaggio individuano il caposaldo su cui imperniare la propria poetica. Lobiettivo è proprio quello di creare un sound intimo che si discosti il più possibile da ogni parvenza di artificiosità, di finzione. Ciò non deve però indurre a ritenere che il suono sia approssimativo o amatoriale: ogni brano, infatti, è frutto di attenti studi sullacustica e sulla caratterizzazione da dare ad ogni singolo strumento, nonchè di astuti accorgimenti in fase di registrazione. Le parole di Robertson, in questo senso, sono assai chiare: Volevo che le percussioni avessero una precisa connotazione. Volevo che il pianoforte non suonasse come un grosso Yamaha a coda, ma come un pianoforte verticale. Volevo creare queste immagini nelle vostre menti. Volevo questi sapori.
Per perseguire questo intento sono stati necessari i preziosi apporti di quattro fra i più preparati musicisti dellepoca: Richard Manuel (pianista efficacissimo e sublime cantante dalla voce morbida e vellutata), Rick Danko (bassista potente e preciso, violinista, cantante ruvido e concreto), Garth Hudson (organo, fisarmonica, sassofoni, tromba praticamente unenciclopedia musicale vivente!) e Levon Helm (batterista, cantante passionale nonchè abile mandolinista). Guidati dalle loro notevoli capacità tecniche (ma niente virtuosismi, please), dalla voglia di giocare con il passato e soprattutto da una immensa umanità, i cinque flirtano con un ricchissimo armamentario tendenzialmente retrò per dipingere undici quadretti dalle preziose tinte pastello che brillano per coerenza e solidità. Più di ogni altra cosa, sorprende il fatto che questi musicisti, seppur dotati di personalità autonome e ben definite, riescano con esiti entusiasmanti a divenire parte di un tutto, a non peccare di egocentrismo, a trovare una invidiabile via di mezzo fra la spinta sanguigna delle ritmiche e le delicate, soffici nuvole rosa delle armonie.
Lontano anni luce dai viaggi lisergici e i colori sgargianti dellestate dellamore, Music From Big Pink (il nome bizzarro è un omaggio alla grande casa rosa immersa nella campagna dove il gruppo ha composto e provato i brani) è caratterizzato dalla costante ricerca di un equilibrio (sia armonico che interiore), dal senso della misura, dalloculato dosaggio di innovazione e conservazione. Eppure limpresa compiuta da Robertson e soci risulta molto più complessa e subdolamente geniale di quanto non possa apparire ad una lettura superficiale, giacchè al recupero di una dimensione prevalentemente acustica e allattenzione quasi maniacale per la forma, si affianca unidea di canzone in cui folk, country, gospel, rock, blues, soul e rag-time vengano valorizzati non in funzione del loro fascino nostalgico ma in quanto elementi privilegiati con cui abbozzare una sorta di new american music di impressionante vitalità.
Un primo, splendido esempio di questo modus operandi è liniziale Tears Of Rage, una sofferta ballata scritta a quattro mani da Bob Dylan e Richard Manuel nel 67 durante le registrazioni dei leggendari Basement Tapes. Nel brano si fondono quasi magicamente la cadenza di uno spiritual, un organo gospel, i fiati impalpabili come da lezione soul, gli assoli minimali di un Robertson più che mai influenzato come egli stesso ha più volte riconosciuto - dallo stile di Curtis Mayfield (sentite che riverbero usa per filtrare il suono della sei corde e smaterializzarlo in un ronzio metallico!) e la pronunciata attitudine rock della base ritmica. Raccoglimento ed ansia di redenzione fanno capolino nella interpretazione magistrale di Manuel, intento a distillare sangue e miele dai tasti del suo pianoforte e a deliziarci con un canto dal quale grondano allo stesso tempo dolore ed estasi.
Altro momento memorabile è la celeberrima The Weight, un mid-tempo pregno di epicità e colmo di geniali sottigliezze, come il capolavoro di economia espressiva che è il lavoro di Robertson alla sei corde, la spigliatezza giocosa di un Hudson che per una volta si cimenta al pianoforte e, naturalmente, il sublime rincorrersi delle tre voci durante il chorus. Questultimo è probabilmente uno dei momenti più emozionanti del disco, un passaggio in cui tutto è calibrato alla perfezione: prima lingresso della fanfara pianistica, poi lincalzare della batteria ed infine le ugole di Helm, Danko e Manuel che snocciolano tre frasi allunisono e successivamente riemergono una alla volta - come in un mottetto medioevale - dal silenzio improvviso e riportano il brano in vita proprio quando sembrava essersi spento.
La sofisticata perizia del gruppo viene a galla sia nei momenti più dinamici (la ruggente To Kingdom Come, i cambi di ritmo della sbarazzina We Can Talk, la sorprendente Caledonia Mission che alterna la dolcezza infinita delle strofe ad un ritornello allinsegna di uno zoppicante blues elettrico) che in quelli più pacati (come nelle sfumature arcobaleno di In A Station o nella riuscitissima cover Long Black Veil), a dimostrazione di come la musica del quintetto sia un contenitore di invenzioni armoniche e stilistiche virtualmente illimitato.
In tal senso, la suprema Chest Fever è uno delle loro canzoni più sperimentali: introdotto dallorgano pastoso e classicheggiante di Hudson (che più in là si prodigherà in entusiasmanti assoli bachiani) e marchiato a fuoco dalla voce di uno spiritato Manuel, il brano è un rock tesissimo, compattato da un ritmo funkeggiante che si conferma uno dei loro più evidenti punti di contatto con la musica nera. E a proposito di black music, è impossibile non citare il capolavoro in slow-motion Lonesome Suzie, un momento di tristezza assoluta, un soul di profondità abissale da cui il falsetto di Manuel (anche qui nelle vesti di autore) emerge in tutto il suo cristallino splendore.
Gli ultimi due brani, anchessi concepiti durante le sessions dei Basement Tapes e frutto della collaborazione con Sua Maestà Zimmerman, concludono lalbum nel miglior modo possibile. Wheels On Fire (Dylan Danko) è infatti una scoppiettante corsa in moto che si tinge di oscuri presagi man mano che la splendida melodia progredisce e le tastiere affrescano paesaggi sempre più sinistri. Fortunatamente il clima di tensione si stempera non poco nel chorus, ma lungo tutto il tragitto permane la stessa agitazione, lo stesso tormento interiore, la stessa ansia di libertà. Ansia di libertà che nella conclusiva I Shall Be Released (Dylan) si eleva fino alla volta celeste e lì si scioglie in calde lacrime di paradiso, mentre il canto di Manuel è ridotto ad un coriandolo di luce che fluttua fra le stelle e il suono dellorgano di Hudson si tramuta in una vibrazione celeste che attraversa lanima. Semplicemente uno dei più grandi finali mai architettati per unopera che ancora oggi lascia di stucco per inventiva, coraggio e preveggenza.
Dopo luscita di Music From Big Pink un po tutto il mondo del rock fà marcia indietro e abbandona le sgargianti tinte psichedeliche in favore di sonorità più pacate o marcatamente roots. La lista dei nomi che sono stati contagiati dalloperazione messa in atto dalla Band è davvero lunga ma vale la pena ricordare almeno la svolta country-rock dei Byrds con Sweetheart Of The Rodeo, il tuffo dei Beatles nella tradizione americana con il White Album, il tono acustico e pensieroso che i Grateful Dead infonderanno in dischi come Working Mans Dead e American Beauty, il rispolvero del blues del Delta messo in atto dai Rolling Stones con Beggars Banquet e Let It Bleed, lintreccio fra rock e folk inglese ideato dai Fairport Convention sullepocale Liege & Lief, nonchè il suono scarno ed aggressivo che i Jefferson Airplane perfezioneranno per il capolavoro Volunteers. Vi bastino questi pochi esempi per riflettere sullimportanza decisiva che la Band ha rivestito nel tratteggiare le coordinate della musica popolare di fine anni 60 . Vi basti ascoltare Music From Big Pink per capire come ciò sia stato possibile.
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