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R Recensione

9/10

Peter Jefferies

The Last Great Challenge in a Dull World

Alle soglie di The Last Great Challenge in a Dull World, Peter Jefferies da Stratford, North Island, è un musicista già affermato, seppur nell’ambito del variopinto microcosmo underground neozelandese: in questo variegato incavo inizia a suonare con suo fratello Graeme, raccogliendo, come del resto la maggior parte dei musicisti loro connazionali coevi, le istanze del post-punk britannico. Il 1981 vede la nascita dei Nocturnal Projections, autori di una manciata di singoli ed Ep (materiale poi su cd in Nerve Ends In Power Lines, 1995) con ancora troppe poche idee di rilievo, per quanto magistralmente cesellate; non è cacofonia pura, ma un progetto comunque destinato a perdersi nel marasma musicale malsano e febbricitante delle due isole.

Ma questa è, manco a dirlo, una storia troppo remota per essere incensata su queste pagine: i Jefferies iniziano a fare sul serio dal 1983, facendosi titolari del progetto This Kind of Punishment, eloquentemente catartico fin dal nome. Peter si occupa principalmente della batteria e, in seconda battuta, del canto, essendo Graeme il frontman della band. Per quanto fortemente cadenzato su rientranze coeve (certo post-punk albionico), si odono schegge di new-wave d’oltreoceano, peraltro lavorate in una giocoforza maggiore complessità compositiva; le registrazioni vedono svilupparsi una minore lo-fi attitude ed una cura del dettaglio abbastanza marcata. Dal loro esordio omonimo viene tracciata una strada, tra i cui margini si avvertono influenze finalmente avulse dalla musica popular: Satie, il dadaismo ed ectoplasmi di certo surrealismo à la Duchamp possono annoverarsi tra i “nonni” putativi dei Jefferies, i quali tuttavia non disdegnano il rock’n’roll più lercio, corroborandone certe scariche con straniamenti dialettici alla Brecht - in senso di sgomento rivelato - ed accostamenti azzardati ma di sicura presa. A Beard Of Bees ne rappresenterà la perfezione formale, aggiungendo peraltro qualcosa anche in termini di canzoniere.

Già da prima dell’effettivo scioglimento dei This Kind of Punishment, Peter si trasferisce a Dunedin, South Island, facendosi largo nella fitta scena cittadina – è qui infatti che conosce il grande Alastair Galbraith, col quale darà vita ad un brevissimo e sfortunato sodalizio coi The Rip, senza tuttavia perderlo di vista negli anni a venire: il bardo di Dunedin, infatti, per anni suo collaboratore e amico di lunga data, ammetterà che questi avrà avuto modo di avergli indicato le dinamiche e il silenzio. Senza più l’ombra carismatica del fratello ad ottenebrarne l’intimo strazio, Peter ha così modo di confrontarsi singolarmente con altri artisti lui affini quantomeno per concezione oltre che prassi esecutiva, in un do ut des di strepitosa pregnanza. Si incalza una rottura mirata e idealmente figlia del free jazz, curandosi assai poco dei riscontri commerciali; si cerca di evitare l’happening affollato e la troppa saturazione del chaos, ma si sfruttano anche elementi  di chiara matrice extramusicale, ossia capannoni ed edifici in disuso che riverberino il suono in maniera del tutto naturale e aleatoria (del resto, non sarà Bruce Russell colui che avrà modo di postulare nel Free Noise Manifesto che I) Being beyond "music," it is noise; II) Being beyond "rules," it is free?).

A scapito della sua personalità fredda e retrattile, continua a collaborare (con altri) e comporre (in proprio), offrendo alle note un’alcova che spalanchi uno dei suoi veli su un’oscurità inedita (quasi con fare mimetico e combinatorio, al punto che H. C. Artmann sarebbe, senza remore, fiero di lui) e inaugurando i fasti di una personalissima mistica del vuoto. Eppure, si sa, il vuoto assoluto è astrazione: per quanto non riesca ancora a trovare la propria spinta di saturazione, il vecchio Pete è già un musicista autentico.

I tempi sono maturi per qualcosa di memorabile; il 1987 è l’anno che vede la pubblicazione di un album - per quanto solamente strumentale - in collaborazione col violinista Jono Lonie, ovvero At Swim 2 Birds, ispirato fin dal titolo al primo romanzo dello scrittore surrealista irlandese Flann O’Brien (1939, tradotto in Italia col titolo Una pinta d’inchiostro irlandese; romanzo che raccoglie felicemente le istanze dei più grandi autori irlandesi, da Lawrence Sterne a Joyce, passando per lo sperimentalismo dello statunitense Henry James, e fondendo svariati filoni - dal celtico, al contemporaneo, al modernismo, alla narrativa culta – in una strepitosa cornice surrealista in cui si susseguono situazioni e personaggi quasi memori della supermarionetta ipotizzata dal teatro di Gordon Craig, ndr). La musica del duo vive come per incanto una sorta di propagazione dell’atmosfera del romanzo: agli elementi di matrice etnica, desunti da mondi lontanissimi quali l’estremo oriente ed il sud degli States, si unisce un gusto per la musica da camera del tutto europeo.

L’irrequietudine lo conduce ad una sorta di eremitaggio artistico: nonostante l’effettiva consistenza della sua carriera di musicista fino ad allora, resta ai margini delle cronache, all’epoca tutte per il lo-fi pop delle band di Dunedin (The Chills, Sneaky Feelings, gli strepitosi The Stones, oltre ai capiscuola Verlaines e The Clean) che timidamente iniziava a riscuotere consensi anche altrove. Fondamentalmente Peter si trova solo a dover gestire il flusso inarrestabile delle sue idee ed il suo costante proiettarsi al di fuori del mondo, un po’ come stare dentro le cose da fuori per osservarne il decorso invertibile, al punto da dovergli sfuggire inventandosi stabilmente come batterista nei Plagal Grind dell’amico Alastair Galbraith (ancora lui!), i quali però avranno vita assai breve  e daranno alle stampe un solo, omonimo e meraviglioso EP, uscito nel 1990 per la Xpressway di Bruce Russell.

Jefferies sa di non poter più aspettare, e nello stesso anno pubblica il singolo Fate of the Human Carbine, registrato con Robbie Muir presso la solita Xpressway , che si prodiga anche per far uscire, su cassetta, The Last Great Challenge in a Dull World, la sua prima raccolta di pezzi solisti: per l’omonimo album è solo una questione di pochi mesi, il tempo che l’americana Ajax se ne sobbarchi la pubblicazione. Questa  versione su cd prevede anche i due pezzi del singolo sopracitato, mossa quanto mai azzeccata affinché la consacrazione di Jefferies possa definitivamente consumarsi.

La copertina del disco ne lascia trapelare la Stimmung; un pianoforte campeggia quasi al centro della copertina, minacciato da un tripudio immagini sconnesse. In alto a destra, palazzoni andati in rovina (forse quelli nei quali Pete & Co. hanno suonato per anni) si ergono lungo una via a senso unico. Ed ecco che, attanagliato dalla curiosità e dal fascino obliquo e sottile dell’inquietudine più vera, apri il booklet e ti ritrovi Bruce Russell, il quale da Port Chalmers, Otango, scrive una manciata di righe significative, nelle quali la carriera di Peter viene ripercorsa con passione, slancio, competenza. E scopri che si trova già fin dal 1989 in that rock’n roll Mecca, the Borough of Port Chalmers, località nella quale iniziano a prendere forma le strepitose canzoni di The Last Great Challenge in a Dull World, come non mai sfida acerrima al 95% of the reheated shite on offer in the dull world of 1990’s ‘popular’ music, e che riesce a procurarsi una TEAC 4-track per circa un mese, tempo nel quale si destreggia tra pianoforte e batteria, oltre a comporre, aggiuntare, improvvisare, dirigere, ed esporre a fattori casuali una dozzina di pezzi che suggellano definitivamente la sua statura artistica, impreziosita in questo caso da una fitto parterre di degni ospiti: a parte i già citati Bruce Russell, Alastair Galbraith e Robbie Muir, ci sono anche Nigel Taylor, David Mitchell, Kathy Bull, Michael Morley e Robbie Yeats dei Dead C. La base resta il Grey St di Port Chalmers.

Peter può contare su uno stile pianistico ampiamente rodato che affonda le proprie radici nel ritmo binario sincopato del ragtime (e di conseguenza nel jazz); i tempi vengono stracciati, squarciati, trasposizione di uno stato d’animo che non prevede salvati, ma soltanto sommersi. L’iniziale Chain Or Reaction serve se non altro per schiarirsi le idee a riguardo, ove il pianismo percussivo di Jefferies si sposa assai bene al chitarrismo di Mitchell dei 3Ds, esasperati a dovere da una recitazione che esplode rabbiosa dopo i primi due minuti del brano. Il primo grande capolavoro del disco però è Domesticia, mirabile esempio di canto a cappella su sfondo di inserti concreti, coi rumori di una cucina e altri ambienti di una casa ed il loro fragore (dietro il quale c’è Nigel Taylor) che contrappunta parole di rara desolazione (Who can say/ will the world turn cold/ holding an ice age/will the withered hand/ be the one foretold/will anyone [… ] old before they throw it all away).

On An Unknown Beach svela invece un’altra sfaccettatura dell’animo tribolato di Jefferies, una piccola gemma in bilico costante tra musica d’ambiente e forme classicheggianti di norma molto poco diffuse tra i musicisti made in NZ, come a voler rivisitare la saga dei This Kind of Punishment sotto un’altra lente, quella di una maturità e di una bellezza umorale diverse.  E se la forza di un gioco di squadra prima impensabile viene alla luce in Guided Tour of a Well Know Street (con Russell e Yeats ad affiancare Pete in un vorticoso boogie a rotta di collo), The House of Weariness  si pone nell’economia del progetto come uno dei momenti più sperimentali: una linea di pianoforte subissata da manipolazioni di nastri, con voci e altri rumori non identificabili che vanno e vengono in maniera quasi del tutto aleatoria. Likewise è un carillon pianistico nel quale Jefferies da riprova di quella cosa che si chiama competenza tecnica, ancora una volta meravigliosamente ragtime nel suo incedere, così come Cold View è una devastazione noise degna dei Dead C, con Peter che martella sul piano e recita l’ennesimo dramma esistenziale di cui solo lui.

Un pezzo che sembrava un tempo impossibile per lui è The Fate of the Human Carbine, quasi un saggio di cantautorato come dovrebbe essere, con una voce ancora di più sicura dei propri mezzi e ben sostenuta dalla chitarra di Muir, mentre Catapult, notoriamente uno dei suoi pezzi di maggior culto tra i fan (tra i quali lo scrivente), è forse uno degli acmi emotivi dell’intero album, con una chitarra che sembra divertirsi da pazzi, inerpicandosi epica e scricchiolante verso l’ennesima cifra stilistica.

Non sfigura la title-track, altro pezzo ad altissimo tasso emotivo che sciorina sicura un po’ degli elementi già menzionati del suo sound inconfondibile, ancora coaduviato dalla chitarra Mitchell, un po’ in disparte stavolta ma sempre preziosa. Ancora un dramma interiore di difficile comprensione è quello che alberga tra le note e le pieghe di While I’ve Been Waiting, poi ci si invola negli onirismi cantautorali di Neither Do I, una minisonata delle sue, mai così dimessa e straziata: potrebbe chiudere l’album in maniera più che dignitosa e lasciarci attoniti in un mare di lacrime, ed invece veniamo all’improvviso spiazzati dal grande impatto di The Other Side of Reason, con ancora la chitarra di Mitchell in grandissimo spolvero e che trivella il recitato veemente e sdegnato di un Peter che imbraccia l’altra chitarra, il tutto affinché ne scaturisca un cataclisma inzaccherato dai crismi del garage-rock più turpe e selvaggio, un baccanale sfrenato come una scopata sfiancante, senza preliminari e senza amore. Si scivola sfiniti e senza una fenditura attraverso la quale passi un barlume di redenzione, Listening In potrebbe anche essere il suo epitaffio, se solo non fosse che uno dei tasselli intercambiabili del suo umore tribolato, così tribolato che ci confessa di essere a tape recorder talking to a telephone line, listening in, ancora un modo per alludere al suo sentirsi testimone e strumento di un fato avverso, o forse soltanto imprevaricabile.

Jefferies continuerà a tessere la sua fitta trama di collaborazioni durante i primi anni ’90, per poi regalarci un altro capolavoro col terrificante Electricity del ’94, in tutta probabilità ancora più personale e violento di questo The Last Great Challenge in a Dull World, il quale tuttavia ha il merito di essere il suo vero esordio da solista e di indicargli la strada maestra negli anni a venire (almeno fino al controverso Substatic, a detta di molti il suo capolavoro, quando forse pecca oltremodo di titanismo, distanziandosi dalla crudezza dei primi album e perdendo più di qualcosa in termini di forza espressiva): strada però che non verrà ripercorsa da nessun altro dopo di lui e per la quale si è perso da quasi dieci anni.

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ozzy(d) (ha votato 10 questo disco) alle 11:18 del 5 agosto 2010 ha scritto:

Il capolavoro del Julian Cope dell'emisfero australe, solo la tua penna in stato di grazia poteva rendere giustizia al grande Peter e ad un'opera così complessa e ambiziosa! Cygnus uber alles!!!