R Recensione

8/10

Big Black

Songs About Fucking

Rivoli di piacere e dolore scorrono a fiotti dal volto di una giovane donna dai capelli corvini, l’incarnato di  porcellana di Meissen. Ha il mento rivolto verso l’alto e il sopracciglio inarcato, mentre qualcuno che non si vede – c’è da crederci – la chiava, non in direzione della stratosfera (Jana Černá), la chiava e basta. Lo sfondo è verde come bile, verde che sa di malattia e piscio rappreso. Albini è già da oltre un anno una leggenda dell’indie-rock, quello vero, grazie alla pubblicazione del primo album dei Big Black, quell’ Atomizer, che, sorta di blockbuster a scoppio reiterato, ancora miete vittime e proseliti, nel nome dell’aberrazione più allucinata.

Il nostro riprende il discorso già intrapreso con il sopracitato Atomizer tout court, ossia l’alienazione in sé (peraltro analizzata alla luce di eventi, che, come sorta di parabole rovesciate possano avere sull’ascoltatore un effetto stordente fino alla catarsi), scandagliando il particolare microcosmo di quella sessuale in tutte le sue forme. Già la copertina, il cui obiettivo a detta dello stesso Albini era cercare di catalizzare l’attenzione sulla tematica di fondo dell’album, oltre che il titolo, “certamente il più onesto titolo d’album nell’era del rock’n roll”, ricamano un’atmosfera tra le più asfissianti e ripugnanti nella storia della musica popolare, forti di una consapevolezza nei propri mezzi da far spavento finanche all’orda d’oro.

Del resto, questo Songs About Fucking viene ancora oggi considerato come il più riuscito dei Big Black dallo stesso Albini, che peraltro ricorda con piacere di come le sessions scorressero brevi , lisce e furiose, specie per la prima parte dell’album, ponendosi su standard di più svogliata agiatezza per quanto riguarda il secondo lato, cosa che tuttavia non intacca minimamente la portata e la trasmissione del messaggio. Il disco è straordinariamente coeso e vibrante, retaggio di una maturità che porta una resa espressiva da non credere, o di come si possa far credere agli altri che si sta credendo quanto rappresentato; da attori consumati, i Big Black si calano nella parte dei devastati senza lasciar trasparire eccessivo coinvolgimento, o non più di quanto dovuto, essendo in quest’ottica tutto più misurato che in passato (da qui la maggior misura con cui viene naturalmente concepita la seconda parte).

Albini, tuttavia, non sarà mai troppo soddisfatto del lato b, anche se inconsapevolmente vi aggiungerà un’ulteriore cifra stilistica, proiettandosi quasi al di fuori di quanto realizzato (un inedito - quantomeno per lui – modo di incanalare l’alienazione, che quasi risente, chiaramente all’inverso, de Le Paradoxe du Comédien di Diderot: si sostituisca l’alienazione alle passioni, e la freddezza talvolta anemica o talvolta consapevolmente concitata alla nobiltà e alla perfezione del gesto).

Nonostante le speculazioni che un disco di questa portata può generare, peraltro abbastanza fatue, Songs About Fucking rimane, quantomeno nella prima parte, un disco di furia cieca e apparentemente incontrollata. Il trio è affiatatissimo e le prime registrazioni prodigiose per efferatezza; Albini, voce e chitarra, il mitico Santiago Durango (qui accreditato come Melvin Belli) all’altra chitarra, Dave Riley al basso e la fida drum machine Roland TR-606, sulle cui mitragliate i nostri han costruito una carriera breve ma imprescindibile nell’economia della fenomenologia dell’hardcore industriale e derivati (chiedere ai primissimi Jesus Lizard, quelli di Blockbuster per intenderci, tra le altre cose meravigliosamente guidati e “prodotti” dallo stesso Albini, che per diverso tempo ne fu anche positiva eminenza grigia).

Si è parlato a più riprese e da più parti dell’abrasività del suono dei Big Black, specie in tale album, senza considerare troppo che proprio a partire da questa, ultima loro pubblicazione, Albini si libera definitivamente dalle pastoie di certe influenze non ancora metabolizzate appieno, mantenendo invariati l’impatto e la violenza del sound, e segnando la strada maestra per la sua carriera ventura, che toccherà un altro picco di eccellenza col progetto Rapemen (continuità con quest’album già dal titolo, evinto da un noto comic book  giapponese, che parla, manco a dirlo, di sesso, stupri, violenze e perversioni assortite) e a partire dal leggendario EP Budd.

Il sesso viene reso in maniera sempre più iperrealistica, il dettaglio anche più insignificante può farsi carico di significati che non si presentino in quanto tali ed incentivare ogni discorso possibile: per anni Albini dovrà combattere contro quest’ossessione, specie quella dello stupro, peraltro da egli stesso ampiamente demonizzata, adducendo la vicinanza del punk a movimenti parafemministi. Combatte le sue ossessioni/compulsioni come una sorta di Gottfried Benn postmoderno, vede la felicità nel nichilismo e nei suoi surrogati (in tale contesto la masturbazione può incunearsi di diritto), per farlo dovrà far quadrare il cerchio, muovendo dall’epocale Kerosene e limando gli eccessi di quell’arte. Ne paga, seppur di poco, l’intensità, e ne viene sacrificato in parte l’impatto ritmico, a favore di una devastazione non più del tutto o quasi aleatoria.

Il primo brano, Power Of Independent Trucking, mette le cose in chiaro, costituendo un breve saggio estetico quando non sostanziale di tutta la carriera dei Big Black: accelerazioni di clangori compresse nella forma classica del pezzo hardcore e una collisione liquida, organica, tra le chitarre di Albini e Durango, che cerca una sua omogeneità di fondo, pur dovendo fare i conti con la centrifuga metallica del primo e lo stile a mo’ di martello pneumatico del secondo (un po’ come stare sotto tortura da due o tre dentisti che ti otturano quattro o cinque denti in simultanea, e l’effetto sul malcapitato è pressappoco lo stesso). Albini smussa le lungaggini dark, mantenendo un’atmosfera claustrofobica allo spasmo; da qui il disco scivolerà che una bellezza, forte di pezzi più brevi che in Atomizer e di una maggiore messa a fuoco. Di fatto l’album non presenta clamorosi pezzi bomba alla Passing Complexion e Kerosene (prese singolarmente i suoi pezzi migliori), è un detonatore elettrico a pressione nel suo complesso.

Il passo verso l’autocelebrazione sarebbe davvero breve, non fosse che Albini ci piazzi in quella una cover strepitosa di The Model dei Kraftwerk (da The Man-Machine, 1978). Tributo commuovente e assolutamente calzante, tramite il quale i Big Black attenuano le istanze precedenti, peraltro senza dissolverle e risolverle. La modella è una sorta di oggetto slegato da quelle che son le dinamiche del comun vivere, incute una soggezione flebile, dovuta al vuoto in cui cerca di compiacersi in maniera apparentemente salda, ma rimane per lo più irraggiungibile, distante da chi s’aliena in lei scorgendola on the cover of a magazine o incontrandola in circostanze più o meno fatue. In poche parole, il protagonista della canzone se la vuole fare e basta, e dalla prospettiva Big Black l’originario synth-pop viene squartato  a questo scopo da una cadenza panzer ed un basso rombante, contrappuntato da detonazioni chitarristiche nel loro stile.

Il disco si sviluppa incrementando un grappolo variazioni sul tema, sia sul versante concettuale che su quello strettamente musicale, incede senza che l’ascoltatore razionalizzi e cerchi riflettere su contenuti, una volta per tutte, disturbanti. Le chitarre talvolta s’inarcano in vortici che, come la più insoddisfacente delle eiaculazioni, poi s’inabissano (come nelle “profondità ctonie” di una vagina), planando sull’ascoltatore attonito - e letteralmente stuprato da siffatta barbarie – sorta di fenomeno carsico su scala ridotta: gli accordi si sfilacciano e si sfibrano dopo brevi scosse telluriche, si inseguono, attratti dalle diversità di stile che i due diversi chitarristi portano in dote, ed infine paiono esaurirsi sul più bello. Mai la sensazione di depressione post-orgasmica è stata resa così nel dettaglio (almeno nella musica rock), ed il grande vuoto che permea le azioni dei bruti che popolano questi brani è quanto di più smaccatamente sincero Albini ha potuto rappresentare, quanto di più verosimile, e proprio per questo forse finanche troppo umano.

L’ascoltatore più sensibile e meno smaliziato è quasi portato a vergognarsi di appartenere a questo genere, eppure Albini è così crudo ed esplicito da cercare, in certi casi, di evitare anche solo il rischio di una catarsi. O forse questo è il suo messaggio, o sta ad ognuno di noi declinare le tematiche del disco come meglio crediamo, visto che, in fin dei conti, le aberrazioni vengono solo descritte, quando non interpretate (questo il verosimile citato in precedenza); scivolano tutti gli altri brani senza soluzione di tregua da Bad Penny – con drum machine che quasi scandisce il precipitare per gli anfratti più sconnessi dell’inferno - altro loro pezzo destinato a diventare un loro classico - , passando per L Dopa (breve e metronimico ammasso di basse emozioni a velocità inaudita).

Precious Thing allarga lo spettro delle soluzioni dei Big Black, ove fa capolino una certa psichedelia ed atmosfere degne dei Savage Republic (i quali, come è noto, idolatrano Albini al punto da dedicare un paio d’anni più tardi un loro brano al primo EP dei Rapemen). Si torna a devastare con Colombian Necktie, che tratta dell’amena pratica dello sgozzamento alla sudamericana col loro consueto piglio, drum machine martellante e urla sconnesse che preparano fraseggi marziali di chitarre, affilatissime, e a ragione, pronte all’imminente taglio del collo: il brano si chiude in maniera così secca da pensare che tal cosa sia realmente accaduta, lasciando così ancora una volta rabbrividire l’auditorio, specie considerando la velocità attraverso la quale si dipana questa carrellata di vicende e relativi personaggi , i quali non troverebbero posto manco nelle Malebolge .

Kitty Empire si pone a metà del disco, come ad inaugurare il passo del guado e la fredda e muta consapevolezza che il male abiti tra le pieghe manco tanto nascoste degli uomini, è lento e cadenzato capolavoro della sezione ritmica, spruzzato qua e là di psichedelia, con un Albini sempre più sicuro e capace di piegare il mondo a sua volonta e rappresentazione, che gigioneggia ponendosi con una recitazione inizialmente monocorde e via via più concitata. Prosegue con Ergot, pezzo che si riallaccia timidamente alla prima parte del disco, diretta e lacerante, ma con un retrogusto amaro di avant-noise e nonsense  - i Jesus Lizard abitano forse già ben entro i margini del brano, Yow and co. sentitamente ringraziano (in particolare per il vocalismo e le mitragliate di chitarre, ma anche per certe progressioni ritmiche).

La riflessione su questo  massimo sistema di brutture sessuali prosegue sempre più variegata, tanto che Kasimir S. Pulaski Day è quasi un crossover impazzito e cingolato, in cui un Albini sdegnato la fa da padrone, svettando su tutta la strumentazione. La coda finale strizza l’occhio al mainstream nella sua immediatezza, un proto-indie appena sporcato dalla consueta abrasività (ben lungi dall’offesa eh!), eppur così breve da lasciar ancora troppo poco spazio ad un’analisi ancora più lucida e chiara del fenomeno. Presumibilmente siamo in Illinois, dove si tiene festa dedicata all’omonimo cavaliere polacco, celebre per essere il padre della cavalleria di George Washington e degli Stati Uniti d’America.

Poco male, perché Fish Fry è, quasi per certo, il momento più agghiacciante e orrorifico del disco, recitazione gotica di un killer, che innaffia l’interno del suo pickup dopo aver preso a calci una donna fino ad ammazzarla – She's wearin' his bootprint on her forehead - , per poi scaricarne il cadavere in uno lago come fosse un rifiuto (mirabile oltretutto l’artifizio linguistico, che lascia ancora una volta sconcertati, giacché pickup in slang statunitense sta ad indicare senza mezzi termini la donna rimorchiata): accordi affilati come lame di rasoio e ritmica opprimente, fatta di serie di tonfi in successione supersonica, il tutto permeato della certezza che sometimes you know you want fuck somebody up, sometimes you just want to fuck; perlomeno sul piano del thrilling il disco raggiunge in tal modo il punto di non ritorno, sviluppato da una mente che riesce a farsi criminale, e ben conscia che bene e male, in fin dei conti, son solo due categorie.

Dopo un simile abominio, anche Pavement Saw rischia di essere ordinaria amministrazione, dando l’impressione di poter venire passata in rassegna, in questo marasma di scambi di liquidi d’ogni risma. Soltanto che il protagonista è oltremodo imbarazzato, il suo lamento è come sospinto dalla musica, l’archetipo dell’antieroe albiniano si macchia qui di nuove sfaccettature;  quasi ci induce alla compassione, questa bestia priva di dignità, che non riesce ad affrontare le avances sfrontate di una lei una volta tanto arrembante, e tuttavia stereotipica (probabilmente si fa dell’ironia su certe situazioni, o c’è dell’altro? Con Albini non si dia alcunché per scontato).

Tiny King of the Jew realizza, una volta per tutte nel percorso della band, l’incontro tra atmosfere psichedeliche e brutale noise-rock, forte di una progressione al rallentatore e di un recitato che si trascina con fiacchezza verso la fine del supplizio, in una cappa plumbea da thriller, mentre Bombastic Intro è chiusura piuttosto singolare, come la saturazione di un’incisione profonda:  volutamente posta da outro, da l’idea di circolarità dell’album, ascoltabile all’infinito come il singolo canto di una congrega di disgraziati, perdenti, pazzi e assassini, e scossa da epilettiche scariche di adrenalina.

La versione su cd, formato peraltro osteggiato fieramente dal vecchio Steve (un accorato The future belongs to the analog loyalists. Fuck digital campeggia sul retro del vinile) presenta una cover di He’s A Whore dei  Cheap Trick, decisamente pigfuck-oriented, finitaci quasi per caso e lasciata dallo stesso Albini, perché, tutto sommato,  non dispiace alleggerire un poco i toni, togliendo nulla all’impatto del disco, e facendo in modo semmai che si guadagni in termini di demenzialità e ironia, altra cifra stilistica che ai Big Black sembrava quasi inarrivabile, oltre che suggello assai azzeccato per chiudere l’intero progetto nella migliore delle maniera. La band infatti si scioglie subito dopo la pubblicazione dell’album (cosa peraltro già concordata prima delle registrazioni), data la decisione di Santiago Durango di immatricolarsi in una scuola di legge. E del resto è anche giusto che una band di tale statura termini il proprio percorso al proprio acme, il quale per Albini sarà punto di partenza verso lidi altri, ed il cui enorme bagaglio verrà trasfigurato in altri suoi progetti e produzioni , e secondo ben altre prassi compositivo-esecutive.

V Voti

Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 10 voti.
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loson 8/10
Cas 8/10
ThirdEye 10/10
Noi! 8/10

C Commenti

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sarah alle 21:12 del 30 novembre 2009 ha scritto:

Oddio, quella copertina più che al titolo sembra riferirsi a qualche altra funzione corporale. Troppo rumoroso per i miei gusti come musicista, Albini l'ho apprezzato giusto come produttore in alcuni dischi che ho molto amato (tipo "surfer Rosa" dei Pixies e "pod" delle breeders). La recensione invece è avvincente e minuziosa come un romanzo, senza mai annoiare: complimenti!

loson (ha votato 8 questo disco) alle 21:48 del 30 novembre 2009 ha scritto:

RE:

Eh ma Sarah, per uno come Albini il coito non può che essere violento, ai livelli di un'appendicectomia senza anestesia! ;D Il disco cmq è ottimo, non ai livelli del mostruoso "Atomizer" (9 secco) ma altrettanto (s)gradevole (un 7,5). Complimenti anche al recensore.

loson (ha votato 8 questo disco) alle 21:55 del 30 novembre 2009 ha scritto:

RE: RE:

Ah, e a mio giudizio l'Albini produttore è forse anche più influente dell'Albini musicista.

Michael Stich, autore, alle 21:58 del 30 novembre 2009 ha scritto:

RE: RE:

Eh si caro Loson, Atomizer è un "devasto" così incontrollato, che non si può che porlo sull'altare dei dischi degli 80s... questo chiude il cerchio, più cha altro qua si inizian a vedere i germi dei progetti futuri. Secondo il giochino dei voti, queste mie 4 stelle stanno tra il 7,5/8, insomma, la pensiam alla stessa maniera. Qui tutto è però condotto con una decisione da fare paura, senza remore, senza colpo ferire. Nessun pezzone epocale, che valga il disco in sé, però un'opera che regge benone l'urto di un disco come il precedente Atomizer, ne rivede certe intuizioni, ne impoverisce alcune forse, ma prepara la strada per nuove avventure musicali.

Marco_Biasio alle 22:19 del 30 novembre 2009 ha scritto:

A me loro non piacciono proprio, ma capisco che è un problema mio, quindi non voto.

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 15:36 del 17 ottobre 2010 ha scritto:

Albini sempre superbo.

ThirdEye (ha votato 10 questo disco) alle 1:25 del 4 novembre 2010 ha scritto:

Capolavoro

Punto e Basta. Cosi' come lo è "Two Nuns and a Pack Mule" dei Rapeman. Gli Shellac invece non mi han mai preso un granchè, boh....