Bon Iver
For Emma, Forever Ago
C’è una storia dietro For Emma, Forever Ago. O meglio, c’è la storia. Quella tipica che verte su elementi talmente universali e comprensibili da risultare quasi cinematografici. Un dolore di natura oscura, una donna perduta, un cammino spirituale intrapreso in solitudine e un lieto fine completamente assurdo, irreale, che ci restituisce il ritratto di un “perdente” nobilmente elevato al rango di grande artista.
Justin Vernon è, nell’autunno 2006, un giovane musicista con già alle spalle numerose esperienze in piccole band del nord-ovest degli Stati Uniti. Originario di Eau Claire, Wisconsin, si trasferisce prima a Minneapolis e poi a Raleigh, nella Carolina del Nord, in cerca di “qualcosa di davvero differente” nella locale scena musicale. Impegnato allora con i DeYarmond Edison, Justin viene sopraffatto, senza troppa cognizione di causa, da un non meglio precisato senso di smarrimento e frustrazione, che dall’esterno non sembra azzardato identificare con la tipica angoscia del musicista ormai venticinquenne i cui sogni di affermazione stanno andando lentamente in fumo. Abbandonato il gruppo in seguito al crescente contrasto fra il suo scoramento e l’entusiasmo degli altri elementi, Justin termina la produzione dei due dischi cui stava lavorando, lascia (o viene lasciato, a seconda della caratura romantica che vogliamo dare all’episodio) la sua ragazza e individua nel capanno del padre, immerso nei boschi del Wisconsin, il luogo in cui rifugiarsi in solitudine per ricercare il seme della sua apatia. Vi si trasferisce all’inizio dell’inverno.
Semplicemente depresso, impiega il tempo come può (fra passeggiate nel bosco e raccolta della legna) o non lo impiega per niente, lasciando che la sera scenda dopo un giorno di nulla assoluto. Questa libertà vaga ma potente gli offre lo spazio per liberarsi dai fantasmi e per ritrovare dentro se stesso l’interesse per la musica. Un vecchio macintosh, un microfono Shure, un registratore a quattro tracce, la sua chitarra ed una seconda chitarra baritona sono i mezzi di cui dispone per rimettersi, musicalmente parlando, a lavorare. E, siccome Dio è buono e la sa lunga, anche una polverosa batteria, abbandonata nel capanno dal fratello di Justin, entra in punta di piedi nel modesto arsenale sonoro.
I tre mesi successivi sono una immersione totale nella composizione, nell’arrangiamento e nella registrazione dei brani. Ore ed ore ogni giorno a definire spartiti e linee vocali, a provare tracce su tracce le stratificazioni delle voci e dei pochi strumenti a disposizione. Il disgelo arriva con il termine dei lavori: Justin esce dal capanno con una manciata di nuovi demo, interamente opera sua, ed un moniker figlio delle circostanze: Bon Iver, ovvero “buon inverno” in un francese non proprio raffinato (bon hiver sarebbe la forma corretta). Torna in North Carolina, si preoccupa di dare una veste e un mixaggio decente alle sue registrazioni (aggiunge per esempio i fiati in For Emma e una batteria in Flume) e comincia a proporle ad alcune etichette attraverso una distribuzione gestita da un manipolo di amici. Quel che successe è riassunto in questa frase dello stesso Justin Vernon: ”Ne scaturì una valanga, dovetti forzatamente far uscire un album che contenesse quegli stessi demo”. For Emma, Forever Ago esce nella sua prima veste nel 2007 come autoproduzione. Ne vengono stampate 500 copie che vanno immediatamente a ruba. Sulla rete l’album si autopromuove magnificamente ed ottiene numerose entusiastiche recensioni, sufficientemente convincenti da destare l’interesse di una etichetta come Jagjaguwar, che del new-folk (o country-core che dir si voglia) degli stati centrali si è fatta promotrice e garante (si pensi al fenomeno Okkervil River o agli ancora ingiustamente inauditi Minus Story). Nel 2008 questo prodotto domestico, più che intimo, è pronto per una diffusione internazionale (nientemeno che 4AD penserà alla distribuzione europea). Praticamente un rarissimo caso di “sogno americano” moderno, evidentemente sfuggito ad Obama.
Che il disco sia riuscito autonomamente a farsi strada nel labirinto monopolistico della promozione odierna la dice già lunga sul valore assoluto che lo caratterizza. For Emma, Forever Ago è in effetti un gioiello sotto molti punti di vista. Le nove tracce si presentano omogenee e compatte (pur mantenendo singolarmente una netta caratterizzazione), a formare un organismo dalla fortissima connotazione intimista e dalla tracotante potenza comunicativa. Oltre alla qualità (altissima) della scrittura, contribuiscono al valore del disco altri due elementi peculiari: innanzitutto la voce di Justin, bellissima, in grado di affrancarsi da qualunque modello proponibile pur integrando in sé le caratteristiche di altri grandi contemporanei e non (il lirismo di Antony Hegarty, ma privo di quell’enfasi che in tanti gli rimproverano; la delicata fragilità di Jeff Buckley ed Elliott Smith, trasposta in un falsetto che ne estremizza ulteriormente l’efficacia; lo spessore di Neil Young che si manifesta nella potenza espressiva e nella profondità dei testi; la sofferenza soul di personaggi come Marvin Gaye e Sam Cooke). In secondo luogo c’è la percezione dell’ambiente in cui la registrazione è avvenuta. Il carattere low-fi, paradossalmente, dona al disco una ricchezza sonora non comune e fondamentale nella definizione del risultato finale. Le sbavature sulla chitarra, le eco della stessa che si impastano in feedback avvolgenti, le tante tracce di voce sovrapposte quasi a confondersi sono un tutt’uno con gli scricchiolii delle strutture in legno del capanno, che divengono parte integrante del suono del disco. L’impressione è quasi visiva: come inizia la musica il capanno ci accoglie. L’odore della legna che brucia, il calore della fiamma, i baluginii sulle pareti in penombra ci proteggono dal freddo invernale, dal silenzio impietoso della neve. È tutto il capanno a suonare con Justin, a fargli da spalla come e più di un musicista “umano”.
Flume apre l’album con un calore indicibile. Tre accordi appoggiati su una batteria appena percossa e persi nei riverberi di vibrazioni assorbite dall’ambiente circostante. Una struttura semplice che alterna strofa e ritornello estraendoli da vuoti sonori sempre in agguato. Melodia immediata, di una semplicità disarmante, ma talmente stratificata e profonda da avvolgere in una coperta e portare lontano, al sicuro. L’immediatezza rimane in Lump Sum, probabilmente il pezzo più accattivante dell’intero lavoro con il suo ritmo incalzante e una melodia così “totale” da raggiungere vertici assoluti. Gli accordi sono sempre pochi, pochissimi. L’accordatura aperta, che Justin predilige, definisce un chitarrismo sporco, in cui molte note restano uguali al variare degli accordi. L’effetto e quello di un continuo non-cambio, di un tappeto su cui tutto può stare senza stonature. È solo un’impressione, l’armonia c’è eccome, ma il pellegrinaggio che compie la voce in questo brano sembra volerne sfidare le regole. Il folk della bellissima Skinny Love (brano scelto per un’esibizione al David Letterman Show) chiude la prima e più immediata parte del lavoro, ammiccando senza timidezza alla New York di Banhart come ad alcune tipicità soul recentemente tornate in auge.
La successiva The Wolves (Act I And II) è sostanzialmente un crescendo unico travestito da ballata gospel. Brano fra i migliori del lotto, è completamente sostenuto dalla drammatica vocalità black del nostro, che emerge da radi accordi seminati lungo l’inizio per poi crescere d’intensità, conferendo ritmo e dinamica all’insieme tutto. La chitarra acquista valenza ritmica solo nello splendido finale, dove comunque l’impalcatura di voci sovrapposte è talmente bella da non lasciare spazio per apprezzare altro. Blindsided è dolcissima e armonicamente essenziale: un’unica nota che si ripete porta le strofe a collassare in ritornelli sospesi, in vuoti sonori che a stento si ritrasformano in musica. La successiva Creature Fear inizia con un coretto stile TV On The Radio, diventa una amorevole ninna nanna che sadicamente viene poi squarciata, contro ogni ragionevole aspettativa, dall’esplosione del ritornello. Sembra di risentire il linguaggio di Jeff Buckley, ma rielaborato in direzione della sua essenza invece che di una ipotetica evoluzione. Team non è altro che un finale strumentale di Creature Fear, note gravi e batteria che costituiscono l’unico momento puramente “percussivo” dell’intero disco.
For Emma è paradossalmente il brano più svagato, con il suo incedere quasi circense seppur dolcissimo, colorato da morbide trame di slide-guitar e dai fiati (tromba e trombone) di John Dehaven e Randy Pingrey. C’è ancora spazio per inserire l’ennesimo timido capolavoro: Re: Stacks, posta in chiusura, è una delle migliori ballate folk sentite negli ultimi anni. Delicatissima, commovente per non dire struggente, in quasi sette minuti di chitarra e voce ci porta a rivisitare i luoghi dell’ascolto, concedendoci quella calma necessaria per una riflessione più o meno conscia sull’esperienza uditiva vissuta.
Questo disco vi ammalierà al primo ascolto. Ma dategli la possibilità di crescere, perché il suo potenziale è difficilmente valutabile. For Emma, Forever Ago è intimismo allo stato puro: “this is my excavation and today is Kumran” recita il primo verso di Re: Stacks. Il viaggio introspettivo dell’autore è paragonato ai famosi scavi di Kumran, in Israele, noti per aver portato alla luce i cosiddetti Manoscritti del Mar Morto. La bravura di Justin Vernon non si limita a questa capacità incontestabile di tradurre in suono le condizioni più fragili del suo animo. Il vero miracolo del disco è, a parer mio, quello di riuscire col suono a definire esattamente non solo uno spazio emozionale ma, in maniera forse ancor più netta, un vero e proprio spazio fisico e temporale.
Nove gioielli, fragili e puri come cristallo, costituiscono un piccolo capolavoro del cantaututorato contemporaneo. È un disco destinato a farsi ricordare, e sarà il tempo a dire se il piccolo capolavoro diverrà grande.
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