Peter Gabriel
Scratch My Back
Due dischi in diciotto anni. Roba da far perdere la pazienza anche al più accanito dei fan. In questi quattro lustri scarsi a colmare il vuoto discografico ci hanno pensato, in ordine sparso: live, raccolte, colonne sonore, side project. Gli anni passano, la creatività inevitabilmente perde il furore di un tempo, l'elasticità delle corde vocali si riduce, perché attardarsi in progetti interlocutori? Proprio ora poi, ora che i soliti ben informati davano in dirittura d'arrivo la stesura di un nuovo disco di inediti!
Peter Gabriel è questo, non agisce seguendo l'istinto, è un riflessivo, le sue opere sono il frutto di laboriosi esercizi di work in progress. Quando il muscolo della creatività si atrofizza, raggiungendo il suo stato di massima estensione, interrompe il processo di composizione o svolgimento per lasciarlo sedimentare e si dedica ad altro. Molto probabilmente in un contesto simile si inserisce Scratch My Back, disco di cover in cui l'ex Genesis (neo sessantenne), per la prima volta nella sua carriera, è l'interprete di brani che hanno solleticato la sua fantasia in tempi più o meno recenti. Gli artisti coverizzati promettono di restituire il "favore" proponendo una loro versione di brani del nostro (ultim'ora: già pronte Biko in versione Paul Simon e Not One Of Us versione Magnetic Fields).
Come era facilmente ipotizzabile Gabriel evita di impantanarsi nella riproduzione pedissequa degli originali, ci troviamo tra le mani dodici tracce (qualche hit e molti brani meno noti al grande pubblico) completamente stravolte da arrangiamenti privi di strumentazione standard, solo pianoforte e un'orchestra di oltre quaranta elementi per una vera e propria rivisitazione degli originali.
La produzione è curata dallo stesso Gabriel coadiuvato dall'architetto rococò Bob Ezrin, gli ordini impartiti a John Metcalfe, sono quelli di costruire arrangiamenti semplici che privilegino la componente emozionale ed espressiva, per dirla all'inglese: soulful.
Devo ammettere che il primo ascolto, durante un viaggio in metropolitana, si è rivelato causa di un coccolone senza precedenti, il disco cresce dopo un ascolto attento e su un impianto stereo che non sia il lettore portatile o le casse del pc. E' questo l'unico modo, ad esempio, per cogliere la toccante profondità dei bassi in The Boy In The Bubble di Paul Simon o il crescendo crepuscolare di Heroes di David Bowie, in un disco che intende semplicemente offrire un contesto alternativo in chiave orchestrale, attraverso una oculata ricerca sonora.
Un brano dalla partitura piuttosto intricata è senza dubbio Mirrorball degli Elbow, nella quale un profluvio di archi si intreccia splendidamente con la sezione fiati, mentre Flume di Bon Iver è di un'appassionante scheletrica desolazione.
La parte centrale del disco è sicuramente la più sugosa: Listening Wind dei Talking Heads in una versione particolarmente sentita (non potrebbe essere altrimenti), riesce a mantenere l'impronta tribale dell'originale, The Power Of The Heart è una delle ultime creazioni di Lou Reed, implementata dallo stesso Gabriel e dominata dal pianoforte, mentre My Body Is A Cage degli Arcade Fire non smarrisce il tratto solenne e la spiccata vena comunicativa dell'originale, riguardo la dolente The Book Of Love dei Magnetic Fields, abbiamo già avuto modo di apprezzarla nella colonna sonora di Shall We Dance? (2004) e non poteva mancare in questa raccolta. Meno convincenti le versioni di I Think It's Going To Rain Today di Randy Newman e Après Moi di Regina Spektor, mentre la Philadelphia di Neil Young non riesce ad andare oltre lo status di onesto tributo, eccessivamente piagnucolosa e monocorde la Street Spirit (Fade Out) dei Radiohead.
Un disco interlocutorio abbiamo detto, lecito discuterne il progetto quindi, lo schema formale offre sicuramente spunti interessanti e godibili, in fin dei conti si tratta sempre della transitorietà di Mr.Peter Gabriel.
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