R Recensione

8/10

Shellac

Excellent Italian Greyhound

Non c’è fretta, non c’è bisogno di agitarsi. Non serve tanta pubblicità, né tanti proclami. In fondo questo non è un lavoro, è solo un divertimento, un’occasione per creare e stare bene insieme:

Gli Shellac si ripresentano così nel 2007, come i soliti infami misantropi del rock, distanti anni luce dai clamori dell’hype musicale. Eppure il trio composto da superproducer Steve Albini, da Bob Weston e da Todd Trainer non scherza quando si tratta di fare un album.

Shellac non è certo un progetto scanzonato, anche se in fondo potremmo intenderlo così. C’è dell’ironia, amara come il sapore sulla lingua del polo di una batteria, c’è del ruvido sarcasmo nei brani spartani e granitici composti dalla band. Siamo al crocevia tra lo spasso, la rabbia e lo sgomento. Tutto è ammantato da una patina incolore ma assurdamente accecante. Questi tizi mandano a defecare l’industria della musica e l’umanità in rovina con una bella pacca sulle spalle e un calcio nel sedere da frantumare coccige e bacino. Il disco è stato prodotto come sempre tramite registrazione analogica, con una precisione certosina nel posizionamento dei microfoni e una ricerca particolare nella scelta dell’equipaggiamento strumentale.

Riascoltando i tre album precedenti (At Action Park, Terraform, 1000 Hurts) non è cambiato molto nella musica testardamente minimalista e sovente nichilisticamente “amelodica” proposta dai tre.

Eppure sembra sempre esserci una nuova linfa vitale che ogni volta torna ad animare i pezzi degli Shellac of North America.

In End Of The Radio un Weston zombiezzato scava lentamente la fossa con un riff meccanico e primitivo per le corde strimpellate da Albini che si raggrovigliano in poche frasi dissonanti le quali quasi azzardano un tema noir-western. È la fine della radio, la fine della musica, la fine dell’arte, dello spirito e forse sono finiti pure i soldi. Albini reclama attenzione, vuole essere ascoltato per l’ultima trasmissione radiofonica sulla Terra. Quei fortunati che assaporeranno i sapori acri degli Shellac non dovranno farsi trovare impreparati. La fiera Be Prepared si affida a stop & go e ritmi spezzati terribilmente innervosenti. Il fulcro dell’arte dei tre è la dinamica, non la musicalità o la compiutezza delle frasi: i tre si guardano negli occhi e si studiano, sincronizzando movimenti degli arti e battito del cuore, esplodendo e implodendo simultaneamente e continuamente (in un contesto di calma apparente come raggelante attesa prima della inesorabile chiamata alle armi soniche), finché si riparte definitivamente in una bruciante cavalcata che farà crollare tutta l’ingombrante struttura spigolosa edificata con tanta cocciutaggine fino a quel momento: è potenza pura e grezza condensata dentro lo scroscio pazzesco dei piatti e i riff veloci e voluminosi prodotti dalle corde cingolate.

Elephant, Genuine Lulabelle e Paco si imbevono di psichedelia tossica, per un effetto violentemente lisergico. La prima vede protagonista un giro di Albini dal gusto bislaccamente esoticheggiante, che farà ben presto posto alla sola voce che sarà accompagnata dalla cadenza ipnotica imbastita da mani di piombo Trainer. Solo in coda emergeranno inattese, narcotiche linee melodiche sopra il solito riffare di pugnali hardcore. La seconda manda ancora più alle ortiche ogni ragionevolezza in fatto di impostare un qualcosa che assomigli ad una “canzone”. La chitarra si avventura in divagazioni schiamaniche, sorpresa poi dall’incedere spezzato degli altri strumenti che ne disturbano il placido moto ondivago, per condurla con sé in una nauseante fuga. Anche questo brano presenta una voragine al centro occupata dall’a cappella di Albini. Sempre sul finire i tre strumenti rifanno capolino e le corde producono venefiche esalazioni elettriche di una pesantezza quasi doom. Qualche attimo e via…si riprende a cavalcare mentre la chitarra compie continue rincorse al di sopra del basso schiacciasassi. Il passo marziale di Paco fa da sfondo ad apocalittici colpi di plettro, fraseggi mortiferi e gargarismi strumentali. Ma la traccia cambia faccia svariate volte: dopo una sezione con le solite pause e ripartenze si giunge ad una sorta di metafisica terza parte tribale dove dire che il modo di riffare si fa ossessivo è dire poco. Pochi accordi su cui si deve insistere per forza pena la morte. E poi ancora una volta sti stramaledetti fermati e ridacci dentro chiudono in bellezza un pezzo a dir poco fenomenale per resa complessiva. Boycott vede intrecciarsi alla batteria che procede con cieca insistenza (da togliere il fiato) un arpeggio limpido ed intricato a ricreare squadrate tessiture math rock . Il resto consiste nell’usuale spezzarsi e ricomporsi della traccia, prima in aperture più ariose e poi di nuovo nel caparbio pestare tipico degli Shellac, che chiudono con Spoke proprio in questo modo: picchiando e pestando come degli ossessi fino a perdere ogni singolo solco delle impronte digitali, gridando e declamando frasi sconnesse a bocca larga, senza rinunciare ad un certo piglio sarcastico.

Un altro ottimo album per il miglior nemico dell’uomo Steve Albini e i suoi compagni di merende.

“I was born with my pants (Be Prepared!), I was born standing up (BE PREPARED !)…”

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 8 voti.
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REBBY 6/10
rael 8/10
ethereal 10/10
ThirdEye 6,5/10

C Commenti

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Luca Morello, autore, alle 22:37 del 2 luglio 2007 ha scritto:

mi autocorreggo: dice "i was born wearing pants..."