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R Recensione

7/10

James Morrison

The Awakening

James Morrison possiede una voce quasi spirituale, perché in essa ruvidezza e amabilità si fondono in un amalgama caldo, emblema delle contraddizioni dell’animo umano, di tutte quelle cose che rimangono in bilico, che non possono essere classificate come bene o male in senso assoluto o che forse lo sono entrambe in egual misura. Questo discorso potrebbe essere ripreso proprio nel contesto del terzo album del cantautore britannico, il quale decide finalmente di sganciarsi di dosso l’etichetta meramente “pop” , per dare voce a quella che da sempre è la sua grande passione: il soul. E lo fa parlando in prima persona, dei fantasmi e dei marasmi intricati tra gioia e dolore che hanno caratterizzato il lasso di tempo intercorso tra “Songs for you, Truths for me” e “The Awakening”, durante il quale si sono susseguiti la perdita del padre e il suo diventare padre.

Due eventi prepotentemente intensi, in un modo o nell’altro. Che nella sua mente si saranno divorati a vicenda, contorcendosi assiduamente, salvo poi sbocciare in canzoni. In musica sincera, diretta. Lo stesso Morrison ha dichiarato a proposito dei due precedenti dischi che, anche se hanno contribuito notevolmente al suo percorso di carriera, non riusciva a sentirli pienamente propri, mentre “quest’album è mio. E’ più essenziale e reale”.

E sarà proprio il rapporto con il padre il maggiore filo conduttore dell’album. Quel padre che aveva visto ben poco dopo la separazione dei genitori, avvenuta quando lui aveva solo quattro anni. Quel padre che era incomunicabilità e ora è rimpianto di parole non dette. Quel padre che adesso attende ogni notte che il figlio chiuda gli occhi per andarlo a trovare nei sogni, come racconta nel brano di apertura, intitolato appunto “In my dreams”, in cui i sogni, come nella più classica delle tradizioni, diventano un modo per alienarsi dalla realtà circostante e ritrovare tutto ciò di cui si ha bisogno. Pur mantenendo in fondo inalterata la consapevolezza che si tratta solo di vagheggiamenti notturni, dove tempo e spazio diventano una massa informe da riempire di luce e amore. Quel padre che ritorna anche in “6 weeks”, con una nota di speranza e rincuoramento dovuta al fatto che perlomeno chi se ne va è “finalmente libero dalle complicanze della vita e dell’amore”, e nel secondo singolo estratto, “Up”, cantato in duetto con Jessie J.

Il brano è incisivo, anche se non quanto il precedente duetto “Broken Strings” con Nelly Furtado contenuto in “Songs for you, Truths for me”, ma ancora non si è capito il perché di queste collaborazioni con la pop-star del momento quando James Morrison è senza alcun dubbio un artista capace di badare a se stesso.

E non si può non essere più che sicuri di questo, dal momento che  il ventinovenne ha finalmente maturato un suo proprio stile, mai statico ma anzi vivace e solerte in ogni traccia del disco. La tensione verso nuovi approdi musicali è riscontrabile, ad esempio, nel terzo singolo estratto dall’album, “Slave to the music”, in cui sonorità ballabili contemporanee convolano a nozze con un R’n’B’ molto più sporco rispetto a quanto i precedenti lavori di Morrison ci avevano abituato. Il brano è probabilmente il più originale e trascinante della sua carriera fino a questo momento. Sarà forse anche merito di quella punta di funk che rende il tutto tremendamente irresistibile, e che ritroveremo anche in altri pezzi del disco, come “Beautiful Life”.

E dire che James ci aveva quasi fatti fessi pubblicando come primo singolo “Won’t let you go”, brano senza infamia né lode che costituisce un continuum con i singoli precedenti. Ma, paradossalmente, è proprio questa la canzone meno saliente dell’intero disco, un bocconcino da dare in pasto alle radio e agli ascoltatori distratti e casuali. Ed  è l’unico piccolo neo del disco, in cui finalmente non è presente alcun filler, problema che invece si riscontrava nei precedenti lavori e che tendeva a rendere l’ascolto più blando e meno godibile.

Tra gli altri brani degni di nota sicuramente “Person I should have been” che, con il suo sound accattivante riflette un malessere interiore e sociale, il quale non si risolve in un finto maledettismo di facciata, bensì nella sincera ricerca di poter un giorno diventare “una versione migliore di se stessi”, e poi c’è “Say something now”, in cui l’influenza dei maestri soul, quali Stevie Wonder e Otis Redding, è palpabile e ci permette di godere appieno di una delle voci più interessanti dell’attuale panorama musicale britannico.

Insomma, che la causa di un timbro così caldo e delicato al contempo sia da riscontrare nella pertosse che lo stava quasi uccidendo da bambino, come si diverte ad affermare il cantautore, non ci è dato saperlo. Certo è che dietro alle sue performance vocali c’è anche tanta preparazione. E soprattutto c’è da dire e sottolineare che James Morrison ha ed ha sempre avuto una grandissima sensibilità di cantautore, sin da quando andava in giro chitarra in spalla a cantare “You give me something”, con la luce negli occhi di chi è profondamente innamorato della sua arte e cerca di perfezionarsi di giorno in giorno con umiltà disarmante.

Non si spiegherebbero in altro modo, altrimenti, brani struggenti e lievi come “Right by your Side”, da proiettarci quasi in tutt’altro periodo storico, l’appeal pop di “One Life”, non a caso scelto come quarto singolo estratto, e la splendida chiusa affidata ad “All around the World” che, come da titolo, presenta forti influenze da parte della World Music, nel contesto di un sound maturo e ricco.

Sarà anche la produzione curata affidata a Bernard Butler a rendere tutto così di qualità, perché no. E che sia stato proprio Butler a produrre il disco di Morrison è cosa molto rassicurante perché, dopo aver lasciato i Suede e sparlato del suo giovane “clone” chiamato a sostituirlo nella band, c’era chi temeva avrebbe fatto la fine di Billy Corgan. E invece ha conservato un buon orecchio per la musica e il talento. Anzi, a giudicare da questo terzo album di James Morrison, direi un ottimo orecchio.

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