A Jack White: uomo dei record e musicista antimodernista

Jack White: uomo dei record e musicista antimodernista

Jack White è un uomo molto contraddittorio e le contraddizioni hanno sempre giovato all'arte. Non fa eccezione la sua carriera. White è assillato dal numero tre e dall’accostamento dei colori. Musicalmente è diviso tra la voglia di innovare e il recupero del passato, tra impugnare la chitarra elettrica come un tomahawk e sotterrare l’ascia di guerra in favore di chitarra acustica e pianoforte. Fonda una casa discografica la Third Man Records con studio di registrazione e negozio annessi e contigui. Come una sorta di Quentin Tarantino della musica, porta avanti la battaglia per le incisioni analogiche e la stampa su vinile e recupera addirittura una cabina di registrazione a gettoni del 1947, la Voice-O-Graph, che stampa i dischi in diretta. D’altra parte riesce a battere record e abbattere barriere: realizza con i White Stripes il concerto più breve del mondo, in solitaria il disco inciso e pubblicato più velocemente nella storia della musica e manda un 45 giri nello spazio, con l’Icarus Craft, una navicella con giradischi incorporato. Vende un suo brano alla Coca Cola per una pubblicità e in un documentario sulla chitarra dimostra come con una bottiglia di vetro della famosa bibita, un asse di legno e due chiodi si possa costruire un monocordo elettrico, senza dover acquistare strumenti costosi. Con gli Stripes mette in piedi dei concerti improvvisati su bus e per strada e poi, senza Meg White ma in compagnia di Alicia Keys, realizza una canzone per la colonna sonora di un film di 007. A concludere il quadro clinico da schizofrenico svetta la sua passione per l’imbalsamazione di animali.

Da buon rocker non si fa mancare le intemperanze: ha comportamenti violenti con la sua ex moglie, con la quale, all'insegna dell’eccentricità, ha celebrato festeggiando sia il matrimonio che il divorzio. Non risparmia i colleghi: picchia selvaggiamente il cantante dei Von Bondies e aggredisce il batterista dei Black Keys: il primo reo di non avergli riconosciuto la paternità esclusiva della produzione di un album, il secondo di aver ottenuto il successo copiandogli lo stile. Ma quello stile non l’ha inventato neppure Jack White: affonda le radici nei primordi del blues e del rock, andando a ritroso da Jon Spencer a Son House attraverso i Rolling Stones. Sempre più pallido e pingue si veste inizialmente da scolaretto, poi da cowboy e infine da uomo dell’800 e rockabilly futuristico. “Versione cicciona di Zorro” ha sentenziato sardonico Noel Gallagher.

Ma parliamo di musica concentrandoci sulla sua carriera solista. Partiamo dal fondo. L’ultimo disco pubblicato a nome Jack White, “Acoustic Recordings 1998-2016”, è un’antologia di versioni alternative e mix, rarità e inediti esclusivamente acustiche, incise durante tutto l’arco della sua attività. Poco aggiunge alla sua opera e non si presenta, per evidenti ragioni, come un capitolo maggiore della sua discografia. I due dischi precedenti, “Blunderbuss” e “Lazaretto”, rispettivamente del 2012 e del 2014, sono ben altra cosa. Entrambi gli album sono pubblicati dalla sua casa discografia Third Man Records e nonostante abbiano eco nel mondo mainstream sono di fatto album del circuito indipendente. Il suo. Sì perché intorno a White c’è un universo che gira e non si ferma, tra band prodotte e trovate pubblicitarie. Le stranezze in effetti continuano: per promuovere il primo album ha impiegato alternativamente una band di soli uomini e una di sole donne e il secondo LP è stato realizzato in un’edizione speciale nella quale vi sono tracce fantasma, udibili solo se il vinile viene fatto girare a 45 giri o a 78.

I due lavori sono molto in linea l’uno con l’altro. Ridimensionato il garagismo stonesiano dei primi tre dischi degli Stripes, Jack White alterna sovente l’hard rock zeppeliniano a ballate pop al pianoforte e alla chitarra acustica, come nel post “Elephant”. Ma in questi dischi il vulcanico White si sbizzarrisce in innumerevoli generi, dall’honky tonk al r’n’b, dal country al folk. Gli arrangiamenti vedono la presenza, non ingombrante ma determinante, di archi e fiati, tastiere e cori. Lontani quindi i giorni dei brani per chitarra elettrica e batteria e degli album registrati in casa. La tecnologia però rimane analogica e l’equipaggiamento resta vintage. White è fissato con i vecchi registratori a nastro, con le chitarre, gli amplificatori e i pedali classici. Ha un rifiuto quasi antimodernista per il digitale e per assurdo la sua cocciutaggine rétro lo fa sembrare originale in mezzo a tante produzioni omologate. Questa sua testardaggine demodé però può, allo stesso tempo, chiuderlo in un cliché stereotipato. L’ennesima contraddizione. Alla scelta dell’armamento datato si aggiunge il suo modus operandi: nonostante non rinunci alle sovraincisioni, White tende a registrare il più possibile in presa diretta spesso senza neppure effettuare prove preliminari con i musicisti. Il risultato non può quindi puzzare di plastica ma, pur conservando una certa autenticità, risulta, rispetto al passato, un po’ patinato. Se, nell’era del post-rock, con i primi White Stripes aveva eroicamente portato indietro le lancette al pre-rock, da solista sembra dirigersi verso generi più sofisticati orbitanti intorno al primo rock’n’roll: il jump blues della cover “I’m shakin’” da “Blunderbuss” è un perfetto esempio.  

Per i talebani del garagismo White è finito con “White Blood Cells”, al terzo disco degli Stripes, quello ancora sostanzialmente per chitarra e batteria, stampato da un’etichetta indipendente e soprattutto incentrato su riff granitici. Senza dubbio da “Elephant” in poi il nostro eroe è cambiato, si è in parte addolcito e ha sperimentato in territori lontani dal rock. Quello che ha realizzato da solista non sarà ai livelli della prima parte della sua produzione nella band ma è senza dubbio di alto livello. Forse se si dovesse scegliere un unico brano pubblicato a nome White la scelta ricadrebbe su un pezzo rock strumentale come “High Ball Stepper” da “Lazaretto”. E’ raro oggi ascoltare artisti affermati cimentarsi in tracce strumentali chitarristiche, abituali invece a fine anni ’50 e inizio anni ’60 quando Link Wray era l’anello di congiunzione tra gli Shadows e i Ventures. Ma anche nello strumentale Jack White ormai guarda a Jimmy Page e, non potendo scimmiottare Robert Plant alla voce come fa regolarmente dall'abbandono dell’ortodossia garagista in avanti, celebra tutto il suo amore per il dirigibile del rock realizzando una “zeppellinata” chitarristica d’antologia. In attesa che si presentino sulle scene i nuovi White Stripes, una band esordiente che rimetta il riff garage al centro della propria proposta musicale, si deve guardare a White come ad un reliquiario che custodisce la santa chitarra elettrica ormai accantonata da quasi tutta la scena mainstream. Magari non porteremo a spalle il tabernacolo in processione ad ogni sua uscita discografica ma evitiamo di criticarlo oltre il necessario: solo Jack White ci è rimasto.  

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Marco_Biasio alle 21:42 del 3 novembre 2016 ha scritto:

Scrivi molto bene.

Cotchford, autore, alle 8:52 del 4 novembre 2016 ha scritto:

Grazie mille!!!