A Don Cavalli: dal revival rockabilly alla musica cinese

Don Cavalli: dal revival rockabilly alla musica cinese

John Lennon una volta sentenziò, lapidario: “il rock francese è come il vino inglese”. In poche parole: un orrore assoluto.  Ma nonostante l’evidente natura periferica della sua scena nazionale, la Francia, da Johnny Hallyday in poi, ha certamente dato il suo contributo peculiare, per quanto minoritario, alla storia della musica rock. E proprio al rock’n’roll dell’era Hallyday si riallaccia Fabrice Don Cavalli. Di origini italiane, nasce a Parigi, cresce a Bonneuil-sur-Marne ma suona, almeno inizialmente, musica americana, in special modo rockabilly.

Attivo fin dagli anni ‘80, partecipa dapprima all’esperienza dei Blue Cats, poi a nome Don Cavalli & The Two Timers registra un album breve, uno split con i Da Gous Ket Ramblers e un EP. Nel gruppo, Don Cavalli canta e suona la chitarra e viene accompagnato da Yannis Dubois alla seconda chitarra e da Serge Bodevin al contrabbasso. La proposta è molto fedele ai modelli, nel segno di quel revivalismo di genere tanto sentito quanto sterile. E chi sono gli ispiratori di questa prima fase di carriera? Senza dubbio Elvis, Gene Vincent e Johnny Cash ma anche un nome meno noto al grande pubblico: Charlie Feathers. “Claustrophobia Blues” (Lenox Records) e “Raw & Spicy” (Tail Records), ‎entrambi del 1997, lasciano il tempo che trovano. Il gruppo non ha l’originalità dei Cramps nel riattualizzare il genere per la nuova generazione, ma neppure la carica empatica degli Stray Cats nell’ammagliare gli ascoltatori estranei alla riserva dei fan oltranzisti. Il pubblico di Don Cavalli è una piccola risacca di rocker, che si spalmano la brillantina sul ciuffo e indossano giacche di pelle.

Il discorso non cambia neppure imboccata la via solista con “The Pharaoh” del 1999 e “Odd & Mystic” del 2002, per la Tail Records e “Carmela” del 2003 per la  Lenox Records. Don Cavalli, in questi tre dischi, non riesce nella doppia missione di svincolarsi da miti toppo ingombranti e uscire dall’asfittico circuito passatista. Nella Francia al giro di boa del nuovo millennio, riproporre la musica americana degli anni ‘50 è una scelta artistica che si può giustificare solo a fronte di un’enorme passione. E di questo va dato atto a Don: suona per piacere e rifugge il professionismo. In fondo poi il rock chitarristico di quegli anni non è tanto più futuristico: si fanno strada gli Strokes e i White Stripes che, pur con un piglio fresco, guardano fortemente al passato, soprattutto agli anni ‘60. Per qualche motivo però gli stilemi degli anni ‘50 sono più legati alla loro epoca e meno facilmente aggiornabili. E nonostante il musicista parigino sia un buon compositore e un ottimo cantante, vede penalizzata la qualità dei suoi brani dalla troppo marcata componente manierista. I suoi dischi sembrano così prodotti di nicchia, destinati allo zoccolo duro dei nostalgici. Eppure Don non ama solo la scena rockabilly: è appassionato anche del bluegrass di Bill Monroe e del soul di Ray Charles, del funk di James Brown e del r’n’b di Bo Diddley. All’amore per il rock’n’roll bianco affianca poi un’eguale ossessione per il rock’n’roll nero, soprattutto per Little Richard. Ha infine una cultura blues abbastanza nutrita, spazia da Skip James a Lightnin' Hopkins, da Son House a John Lee Hooker e col tempo inizia a familiarizzare con le accordature aperte. Il lavoro seguente mostra i primi lievi cambiamenti, proprio grazie all’ampliamento del panorama musicale di riferimento.

Don Cavalli incide in solitaria e nel suo appartamento, “De Profundis” con due registratori a cassetta e una chitarra acustica. In pieno spirito lo-fi, l’intento è quello di ricreare, in presa diretta, l’atmosfera dei vecchi 78 giri. Per la prima volta il rockabilly viene affiancato alla pari dai due generi, il blues e il country, prima secondari e marginali. Il risultato è un, pur personale, calco stilistico, un tributo appassionato alla musica americana. In “Berceto Stomp”, Don cerca invano di imitare il suono del mandolino con la chitarra, per omaggiare Berceto, il paese di origine della sua famiglia. Ma le stramberie finiscono qui. “De Profundis” è un buon album di revivalismo ortodosso senza guizzi d’estro e balzi in avanti, pubblicato in una stampa limitata e in versione scorciata nel 2003 (White Heat) e in un’edizione più facilmente reperibile e accresciuta nel 2016 (A Rag). È invece il capitolo successivo a determinare un cambio di passo e un salto di qualità.

Quando tutto sembra scritto e il personaggio pare ormai catalogabile e archiviabile, ecco che Don assesta un colpo da maestro. “Cryland”, mandato in stampa nel 2007 per A Rag in Francia e distribuito in USA dalla Everloving, rappresenta la prima opera importante del nostro. Il contatto con la casa discografica statunitense arriva grazie all’interessamento di Ben Harper, evidentemente affascinato dal musicista francese. Don in questo periodo, in effetti, inizia ad attirare l’attenzione dei suoi colleghi più famosi e suona in apertura ai concerti di Black Keys, Jack Johnson, Robert Plant e appunto Ben Harper. Tra le band per cui si esibisce di supporto, si annoverano anche i Moriarty: ed è proprio un membro di questa band, Vincent Talpaert (già Bo Weavil), ad aiutare Don ad incidere l’album, svolgendo il ruolo di bassista e batterista, arrangiatore e produttore.  “Cryland”, che prende il nome significativamente dal pedale wah Cry Baby, vede un Don Cavalli mutato: liberatosi della camicia di forza del purismo di genere, abbraccia il mondo intero. Lo sforzo del cantante rockabilly è titanico: apre il suo spettro limitato di rock’n’roll/country/blues ad una serie di generi diversi come gospel, soul, funk, reggae, dub, psichedelia e alcuni tratti di world music, che in seguito vedremo cresceranno in rilevanza. “Cryland” sembra l’opera di un Manu Chao meno piaccione prodotto da un Beck più grossolano. Don Cavalli è un cittadino del mondo: le origini italiane, la nazionalità francese, i gusti anglofili si mischiano a spunti esotici e tropicali. Il suo accento parigino e l’episodio francofono di “Chérie De Mon Coeur”, sembrano filtrare i vari generi attraverso una sensibilità cajun/zydeco. Brani come  “Wandering Wanderer” approcciano in modo esplicito il reggae e la dub mentre pezzi come “Wonder Chairman” fanno risaltare la componente gospel e funk. Per il resto si veleggia a vista tra il blues e il country sempre in salsa elettrica: il profumo di gamberi e la puzza di palude emergono sottilmente dalle tracce di “Cryland”, senza mai prendere sostanza in una vera e propria svolta swamp rock. La musica della Louisiana si amalgama a quella giamaicana ma anche al rock psichedelico inglese e statunitense. La produzione resta asciutta e legata ad una certa idea di classicità americana e a personaggi di confine come J.J. Cale e Joe Tex. D’altra parte l’esempio di Bob Marley e Lee Perry inizia a farsi strada nel pantheon sempre più politeista di Don. Interessante l’utilizzo del pedale wah wah e degli effetti dub a rendere acido e allucinato il repertorio quasi totalmente costruito su schemi blues e country, con chitarra e armonica in evidenza, ma spesso dirottato verso sonorità apertamente funk. “Cryland” può definirsi, almeno in parte, un esperimento di world music e il brano “New Hollywood Babylon sembra il manifesto di questa svolta: una babele di linguaggi musicali diversi che si affastellano uno sull’altro. Eppure “Cryland”, per la prima volta, dimostra anche quanto Don Cavalli possa trovarsi in sintonia con il diktat dei White Stripes, grazie ad una versione tutta personale di garage punk, come nella spigolosa “Casual Worker. Solo dopo dieci anni esatti dall’esordio, riesce a segnare una tappa importante nella sua carriera, in termini di qualità artistica e relativo successo. E la critica, per nulla indifferente, lo premia con elogi sperticati: l’album sarà inserito al dodicesimo posto nella classifica annuale di Mojo e al tredicesimo di quella di Uncut. La strada davanti a Don sembra finalmente spianata.

Quando tutti puntano su di lui come nuovo astro nascente della scena “alternativa”, Cavalli volta le spalle allo show business e rifiuta di diventare musicista a tempo pieno. Svolge la mansione di becchino, di muratore e di giardiniere, perché a suo dire la vita in tour è ripetitiva e toglie il tempo alla creazione. Solo dopo sei anni di silenzio, viene pubblicato, da A Rag in Francia, “Temperamental”, distribuito in USA sempre dalla Everloving. Il suo tragitto così conforme ad uno stile fino al 2007, dopo la sterzata inaspettata di “Cryland”, arriva nel 2013, con “Temperamental”, ad una vera e propria rivoluzione. Don, in questo lavoro, apre ulteriormente il panorama già eclettico illustrato da “Cryland”. Scopre infatti la sua passione per la musica cinese e la coniuga alla sua matrice americana in modo inconcepibilmente fluido e naturale. Il merito di Don risiede nell’avere avuto un’idea folle ed essere riuscito a metterla in pratica con una disarmante semplicità: ad ascoltare “Temperamental” sembra che il country e il blues siano due generi di origine asiatica. Ai già numerosi stili musicali presenti in “Cryland” si aggiungono, oltre alle sostanziali ascendenze cinesi, sfumature indiane, inedite incursioni nel regno dell’hip hop e strizzate d’occhio al big beat. Ma anche certe atmosfere western delle colonne sonore di Ennio Morricone e il pop d’autore di metà anni ‘60 influiscono sulla composizione del disco e in special modo su “Garden Of Love”. Dietro al mixer siede sempre l’amico e collaboratore Vincent Talpaert, che in questa occasione calca la mano: la produzione è più pop e allo stesso tempo maggiormente raffinata, con arrangiamenti elaborati, suoni moderni e un uso determinante dell’elettronica. Si perde la spontaneità di “Cryland” per guadagnare in originalità: se il capitolo precedente si era presentato variegato ma coeso, qui la varietà è talmente estrema da non poter garantire una coerenza complessiva. Per certi versi “Temperamental” ha qualcosa a che fare con “Play” di Moby e con il tentativo di coniugare le musiche ancestrali con le tecnologie più à la page. Ma quella di Moby, per quanto apprezzabile, era pur sempre una fusione a freddo: qui si tratta della creazione ex novo di un genere, un miscuglio inusitato di musica americana e musica cinese. La sua proposta è quindi un mix di Beck e Fiery Furnaces, Chemical Brothers e Black Keys ma con elementi del tutto inediti. Se da Beck riprende l’idea di attualizzare la musica folk con l’aiuto dell’elettronica, da Dan Auerbach, che non a caso accompagna in tour, mutua un certo piglio interpretativo. Forse il paragone più azzeccato è però quello con il vecchio bluesman R.L. Burnside e con il suo giovane mentore Jon Spencer: certi loro brani in bilico tra blues rurale e futurismo elettronico sembrano precedere il progetto di Don Cavalli. Ma la particolare commistione con le sonorità dell’estremo oriente rende “Temperamental” un disco unico e come dice il titolo “capriccioso”. A livello strumentale, l’utilizzo di banjo e organo si accosta a quello di sampler e chitarra con effetto wah in uno straniante miscuglio di tradizione e psichedelia. Ancora più temerario l’impiego ipnotico dello scacciapensieri in  “You And My Zundapp” che, con un cantato rockabilly, trasporta un’atmosfera rurale del Mississippi di inizio ‘900 in un presente alternativo. L’album vanta anche due duetti: in “Say Little Girl”, canta Rosemary Standley, voce dei Moriarty e in “The Greatest” la chanteuse cinese Zhan Xiao Li. In quest’ultimo brano si concretizza in modo esplicito il matrimonio tra occidente e oriente, grazie all’accostamento tra il cantato in mandarino e il suono country del banjo. “Santa Rita”, con un mandolino in evidenza, e “Me and My Baby”, gemma melodica del lotto, amalgamano al meglio la musica americana a quella cinese. Ma nel disco si insinua anche un’ascendenza indiana: in “Gonna Love You”, sorta di incrocio tra Sly & the Family Stone e i Can, e in “Feel Not Welcome”, rap old-school, fa capolino un sitar distorto: entrambi i pezzi hanno poi una ritmica elettronica caratterizzata da un groove accattivante. Ascoltando questi brani, la mente corre a certi dischi dei Cornershop degli anni ’90, tra neopsichedelia, world music e big beat. Nelle mani di Don Cavalli però la contaminazione risulta molto più stravagante e allo stesso tempo più finemente impastata: un pezzo come “Row My Boat” smonta qualsiasi paragone e fa decadere ogni possibile etichetta.

Di fronte alla sfida incrociata, in campo estetico, del post-moderno e della globalizzazione, Don Cavalli con “Temperamental” prova a dare una risposta credibile. E il solo fatto di provarci gli rende onore. Don non si chiude più in una ricetta musicale singola, impermeabile ad influenze esterne e caratterizzata da un concetto odioso di purezza, ma non crea neppure un polpettone generico, una fusione superficiale del rock con le “musiche altre”, una sbobba tanto godibile quanto insipida. Don, contaminando in modo personale gli stili che ama, cucina una minestra speziata, in cui si riconoscono gli ingredienti, ben dosati ma follemente equilibrati. La chiusura in un’unica cultura e l’adesione ad una koinè globalista sono due risposte semplicistiche se non sbagliate al quesito della nostra epoca. Ma i meriti di Don Cavalli non finiscono qui. Nell’era in cui si è superata, in ogni settore artistico, la necessità di innovare ed essere originali, Don cerca di creare qualcosa di nuovo ed esclusivo. A prescindere dal giudizio qualitativo sull’esperimento di Cavalli, non si può di certo sostenere che il musicista francese si sia limitato a confezionare un disco di canzoni, come ha fatto, quest’anno, il suo amico Dan Auerbach con “Waiting on a Song”. La sfida del “nuovo” sembra ormai roba vecchia, un residuato delle avanguardie del ‘900. Eppure chi crede che la musica non sia solo un prodotto di consumo ma una ragione di vita, una lente per osservare con sguardo diverso il mondo, non può accontentarsi di brani ben costruiti e di album sapientemente congegnati. Don Cavalli ha tentato di superare l’impasse del nostro tempo e forse, nel suo piccolo, c’è riuscito. Ma ecco che a sorpresa, dopo aver dato alle stampe il vulcanico “Temperamental”, partecipa a “Fugitives” dei Moriarty,  un disco tributo alla musica tradizionale appalachiana, e pubblica a nome Don Cavalli & the Sons of Man un singolo di rock’n’roll duro e puro. Speriamo sia solo una giusta parentesi di sano divertimento e ci auguriamo riprenda presto il suo percorso sperimentale e ci spiazzi nuovamente con proposte incredibili.

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Cas alle 16:36 del 12 ottobre 2017 ha scritto:

Ottima presentazione e personaggio interessantissimo. Personalmente sono rimasto molto affascinato da "Cryland", anche se forse è "Temperamental" a contenere più idee innovative. Approfondirò sicuramente

Cotchford, autore, alle 16:44 del 12 ottobre 2017 ha scritto:

Grazie Cas! In effetti Cryland forse è più coeso, Temperamental più innovativo ma un po' più sfilacciato. Secondo me comunque è una delle cose più originali degli ultimi anni.