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R Recensione

7/10

Jack White

Lazaretto

 

Per molti italiani Jack White è ancora quello del po popopo po po po dei Mondiali di calcio. Non c’è nulla di male, e a pensarci bene se nel 2006 abbiamo vinto la coppa del mondo e quest’ anno l’inno era “Un amore così grande” dei Negramaro, un motivo ci sarà. Per tutti gli altri Jack White è l’ormai ex leader dei White Stripes, autori di una serie di ottimi dischi a base di riff blues belli almeno quanto quello di “Seven Nation Army”. Da quello schema semplificato e volutamente grezzo (vogliamo limitarci a questo nel descrivere il drumming di Meg White), White ha preso definitivamente le distanze nel 2012, quando “Blunderbuss” faceva un passo indietro (il recupero delle radici blues e rock) e uno avanti (arrangiamenti e strumentazioni più ricche).

Lazaretto” riprende quel discorso, assecondando ancora una volta le molteplici ispirazioni e i cambi d’umore del suo autore. Sarebbe sufficiente analizzare il brano che da il titolo al disco per capire con quanta abilità Jack White sappia frullare il blues, i Led Zeppelin, una linea di basso che sembra uscita da un vecchio disco degli O’Jays, le chitarre distorte dei White Stripes in entrata e un codazzo di violini in uscita.  E se è vero che sintetizzare tutti questi elementi in un unico capolavoro (per di più con la pretesa di racchiuderli in uno schema retrospettivo-moderno) è praticamente impossibile, è altrettanto vero che uno che mischia il rock con Morricone (“Would You Fight For My Love?”) dando l’impressione di farlo consapevolmente, il capolavoro lo sfiora spesso. Per non parlare di quando sembra volersi misurare con Jimi Hendrix (“High Ball Stepper”), con Bob Dylan (“Temporary Ground”) e con i Rolling Stones (“Just One Drink”) oppure di quando organizza risse tra lo shock-rock di Screaming Jay Hawkins e i Rage Against The Machine (“That Black Bat Licorice”).

Eppure, in mezzo a questo a questa cascata di rock, blues, funk, pianoforti ragtime e chitarre dai mille suoni diversi, tra tanta sostanza perfettamente forgiata dalle mani del suo istrionico autore e magistralmente eseguita con l’aiuto di due backing bands (i Buzzards e le Peacocks), manca un pezzo veramente memorabile. La nuova “Seven Nation Army”, ancora una volta, non c’è. Ma forse proprio per questo tra venti anni parleremo ancora di Jack White e avremo dimenticato i White Stripes e “il cielo è blu sopra Berlino”. Speriamo.

P.S.: il paragone si potrebbe tranquillamente evitare, ma mi è stato espressamente richiesto: a uno così, Dan Auerbach può giusto accordare le chitarre.

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 7 voti.
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brian 7/10
Senzanome 7,5/10

C Commenti

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Franz Bungaro (ha votato 8,5 questo disco) alle 8:55 del 28 luglio 2014 ha scritto:

Fab, tu dici, manca la Seven Nation Army. Io dico, menomale. Le prime 5 di fila sono un ciclone che non penso nessuno oggi sia capace di infilare con tanta forza, convinzione e bravura. Jack è oggi il numero uno, indiscusso. Questo è il suo album migliore e se non fosse per qualche momento leggermente (ripeto leggermente) sottotono nel lato B (finora ho ascoltato quasi esclusivamente il vinile, che consiglio) sarebbe un sacrosanto capolavoro, sicuramente la cosa migliore da lui fatta in carriera. Dopo il concerto di Roma, sono d'accordo con te, Aurbach impallidisce al Suo cospetto. Nota di colore: Il lato A del vinile gira al contrario, c'ho messo un giorno a capirlo, poi dopo però è stata l'apoteosi.