White Stripes
Get Behind Me Satan
Il duo più chiacchierato della recente storia del rock americano, della diatriba tra chi li definisce dei geni e chi dei plagiatori, torna alla ribalta dopo l’incredibile successo di ELEPHANT. Al di là della diatriba, Jack e Meg White (gli ultimi gossip confermano: non sono né coniugi, né compagni, né fratelli) hanno avuto il merito di far riaccendere i riflettori sulla vecchia Detroit. I magazine statunitensi parlano di una città di nuovo in fermento, come lo era stata solo nella fine dei 60’s quando poteva vantarsi di fenomeni quali gli MC5 e gli Stooges che si contendevano la scena. È risaputo come spesso in questi casi tutto sia spesso volutamente gonfiato e amplificato dai media, ma, fermento o meno, la grande differenza è comunque davanti agli occhi di tutti. I White Stripes, quanto i rivali Von Bondies e Detroit Cobras, non propongono un sound nuovo come i loro ideali progenitori, ma un accattivante revival dei fasti del tempo. Con tanto di strumentazione “d’antiquariato”, fruscii e imperfezioni da registrazione analogica.
Non si discosta dalla linea per così dire tradizionalista questo GET BEHIND ME SATAN. Il singolo ”Blue orchid” non avrà la stessa presa commerciale di “Seven nation army” ma è efficace e diretto, pescato come sembra da un vinile polveroso dei gloriosi 60’s. E la voce di Jack ha assimilato al meglio le mai dissolte contaminazioni nere del capoluogo del Michigan, da sempre meltin’pot anomalo, per posizione geografica, e originale, per forme, tra cultura anglosassone e cultura afroamericana. “The nurse” lascia subito il segno. Guidata da una sinistro accompagnamento con un’inconsueta marimba e un piano che ricorda “How do you think it feels” del Lou Reed di Berlin. Sferzate di batteria e chitarra che scuotono l’atmosfera in vertiginosi controtempo.
I Rolling Stones e i Kinks restano un punto di riferimento essenziale, ma nel piglio garage dei White Stripes non c’è mai stato tanto blues e tanto soul che sfocia in crescendo vocali liberatori cari a Creedence e Grateful Dead. Si ascoltino gli armoniosi fraseggi di “The denial twist” e ”My doorbell”. Il piano è molto più presente e decisivo. La chitarra di Jack, apparentemente declassata, torna tuttavia a creare scompiglio nei più o meno involontari tributi ai Led Zeppelin - senza il basso di Jones e i prodigi di Page e Bonham- di ”Instinct Blues” dal titolo emblematico e ”Red rain”, ipnotica e demoniaca con i suoi inquietanti bagliori di trilli e campanellini. Perversioni e suggestioni sixty da brivido. Non che lui sia il nuovo Robert Plant, sia chiaro, ma si sforza sputando fuori tutta la sua grinta blues, coadiuvato da una chitarra rumorosissima, sporca, sbilenca che si aggroviglia in tunnel senza uscita. L’effetto è allucinante.
Se lo scopo era questo la missione può dirsi compiuta. Svetta su tutti gli episodi più trattenuti la vibrante ballata di ”Forever for her”. Con la stralunata marimba sempre in agguato. Un’altra dimostrazione dell’apprezzabile vena di White nell’omaggiare i grandi maestri senza scadere in plagi. Come nel gioiello ”Little ghost”, malinconica e acustica con Jack che batte il tempo sulla sua chitarra. La malinconia diventa artificiosa nell’indecisa ”White moon”. Dalla città ci si sposta in campagna con la filastrocca ”As ugly as I seem” e “Passive manipulation”, l’imbarazzante intermezzo di 34 secondi cantato da una Meg che non sembra proprio avere la pasta. Prova ne sia la conclusiva ”I’m lonely” dove viceversa lo stesso Jack riesce ad avvicinarsi con esiti ben più degni ad un timbro acido femminile alla Janis Joplin. ”Take take take” è invece il punto di raccordo tra cupezze cittadine e solari flash rurali. Con una voce sempre graffiante ed espressiva.
Nessuno stravolgimento, ma chi ha una certa nostalgia per quei bei tempi andati, non potrà non apprezzare questo quinto album dei White Stripes che, nonostante i tentativi di esorcizzazione, non riescono proprio a lasciarsi alle spalle i vecchi diavoli.
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