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R Recensione

9/10

Spring Heel Jack

Amassed

Ci sono i dischi belli e ci sono i dischi che rompono gli argini, perché possiedono poteri taumaturgici.

Ne calcio esiste un prima e un dopo Maradona, nell'automobilismo esiste un prima e un dopo Ayrton Senna, nella musica contemporanea esiste un prima e un dopo "Amassed", lo "Spiderland" del nuovo millennio. Esagero? Forse.

Ma assecondo i Public Enemy: per cattturare l'attenzione di una persona è necessario colpirla con un pugno. Metaforicamente, s'intende. E il trucco, di regola, funziona.

Procediamo per gradi: John Coxon e Ashley Wales si incontrano nei primi anni '90 a Londra. La città è un caleidoscopio di idee e di esperimenti: del resto, la musica elettronica sta assorbendo le menti più brillanti del Regno, è un fiore pronto a sbocciare

I nostri non si fanno pregare: abbracciano la drum'n'bass e architettano un linguaggio complesso, cerebrale e poliedrico. Non sempre di facile fruizione, ma tant'è: gli Spring Heel Jack sono una delle realtà più originali della seconda metà del decennio.

La svolta, in ogni caso, arriva alle porte del nuovo millennio: "Disappeared" assorbe elementi jazz e si avventura in territori inesplorati, al confine fra musica afroamericana, IDM e lunghi esperimenti post-rock.

Il capolavoro definitivo, però, arriva nel 2002, e si intitola "Amassed". Il duo si è allargato e sa selezionare con cura i collaboratori: il progetto si arricchisce di sfumature grazie al sassofono di Evan Parker, alla grazia preziosa del pianoforte di Matthew Shipp, all'inventiva della tromba di Kenny Wheeler.

Ecco allora che i brani si librano in aria come meditazioni solenni, trasfigurandosi in dipinti astratti che rubano idee al cubismo, all'impressionismo e alla libera improvvisazione.

"Double Cross" è un caleidoscopio di idee rivoluzionarie: il sax si muove discreto sopra un tappeto di rumori magmatici che lentamente deflagrano verso la musica industriale.

Manca ogni forma di ritmo: gli Spring Heel Jack hanno sconfitto la forza di gravità, fluttuano nell'atmosfera senza sapere dove né quando. "Duel" non risulta meno abbagliante, pur virata in direzione bop: qui la batteria gioca un ruolo fondamentale, schiumosa e inafferrabile. Parker nel frattempo si appropria dell'enfasi di gente come Coltrane e Sanders, e rovescia sull'ascoltatore accordi dilaniati, intervalli dissonanti e mitragliate in delirium tremens.

Ogni brano celebra un nuovo modo di intendere il concetto di jazz, e sposta sempre più in alto l'asticella: "Obscured" dipinge contrappunti raffinatissimi che si vaporizzano dentro un passo solenne e brutale, neanche fossimo alle prese con un Michael Gira in versione jungle. "Wormwood", a metà strada fra i Pink Floyd di "Atom Heart Mother" ed il post-rock, è una sinfonia di suoni liberi, indecifrabile e bellissima anche dopo un'infinità di ascolti.

"Maroc" è gemma fra le gemme: i suoi arabeschi progressivamente si frantumano in una colata di lava fumante, in un baccanale che ricorda da vicino le intuizioni più cervellotiche di Albert Ayler, quando non di Anthony Braxton.

Il capolavoro è però "100 Years Before". Un Jackson Pollock prestato al jazz non avrebbe saputo fare di meglio: il sassofono esplora universi sconosciuti, lontano da tutto e da tutti, appena disturbato da rintocchi sporadici e sinistri in sottofondo. Il lungo dialogo con la tromba di Wheeler, poi, è magia allo stato puro, un luogo incontaminato e limpidissimo.

Anche "Lit" si prende il massimo dei voti: un'elegante e maestosa meditazione del sax sposa l'elettronica più disturbata. La musica libera affoga fra i crepitìi del glitch costruendo un brano intriso di lirismo.

Ecco, la cosa veramente stupefacente è che musica tanto complessa, coraggiosa e spregiudicata non perde nulla in termini di efficacia espressiva. Del resto, questa è una peculiarità dei dischi che aprono solchi nella storia, il quid che differenzia un lavoro interessante da un lavoro semplicemente meraviglioso.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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redbar 7,5/10

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