A Live - Frog Eyes

Live - Frog Eyes

Fa un freddo porco a Torino, e per di più piove a dirotto. Il piano di viaggio non prevedeva tante avversità climatiche e ci si aggrappa a un fragile cappuccio neanche troppo impermeabile e all’intuito dei compagni di viaggio (tra cui il compagno recensore Matteo Castello) per arrivare alla zona benedetta sani e salvi.

L’intuito ovviamente non basta e sbagliando bus ci ritroviamo a percorrere l’interminabile via Francesco Cigna a piedi, sotto colate di acqua, fino al fatidico numero 211, dove risiede uno dei locali storici dell’underground musicale torinese: lo Spazio 211.

L’approdo finale suona come il ring che dà pausa al pugile sfinito. La birra che segue invece suona come il nettare divino che inietta dritto nel sangue una dose inebriante d’energia. Aspettiamo i Frog Eyes, uno dei gruppi più interessanti della scena indie-rock canadese, che negli ultimi anni luccica grazie a pezzi pregiati come Wolf Parade, Arcade Fire e Sunset Rubdown. Non potevamo certo perderceli i Frog Eyes, specie dopo quel disco enorme che è l’ultimo Tears of valedictorian che ha fatto addirittura sfigurare il già ottimo The bloody hand dell’anno passato.

E allora eccoci qua ad attendere che gli occhi di rana salgano sul palco ciarlando amabilmente di quanta poca gente sia presente nel locale (ad occhio e croce non più di una cinquantina in tutta la serata). Quattro gatti insomma, ma il palco posto allo stesso livello del pubblico e l’assenza di qualsiasi tipo di barriera sono segnali che annunciano un’esibizione quanto meno avvolgente e per quanto mi riguarda unica. Le belle sensazioni nell’aria sembrano andare in frantumi quando sale sul palco il secondo chitarrista del gruppo: tale Ryan Beattie che comincia a strimpellare squallide canzoncine da due soldi fatte di quattro accordi, suonate in maniera discutibile (un pizzicorio di corde che di fatto spesso restano mute) e cantate ancora peggio (un uomo stonato, nient’altro da aggiungere). Per di più il modo di Ryan di cantare ad occhi chiusi schiacciando il naso al microfono in una posa a dir poco comica non riesce a distogliermi qualche piccolo riso dalla bocca. Molto più spesso però la sua esibizione mi fa alzare gli occhi al cielo per invocare la fine di un tormento che non mi capitava di provare da quando sentii i Deasonika come gruppo spalla dei Bloc Party un paio di anni fa.

Quando finalmente mi spazientisco del tutto e sto per raggomitolarmi in un divanetto a dormire Ryan se ne va e io mi risveglio dal mio torpore e penso che un cuba libre forse sarebbe la cosa migliore per riprendersi. Arriva invece finalmente il gruppo, guidato dallo splendido Carey Mercer, che non so perché, ma mi ricorda un sacco uno di quegli omini irlandesi paciocconi e pacifici che passano il tempo a sbronzarsi nei pub per famiglie. Oltre al già noto Beattie lo accompagnano Michael Rak (un simpatico omino minuscolo con gli occhiali che per qualche miracolo metafisico riesce a sostenere un basso quasi più grosso di lui) e Melanie Campbell alla batteria. Una donzella alle drums e inevitabile scorre un brivido di piacere pensando alle scorribande della Tucker nei Velvet Underground, subito acquietato però al pensiero del soffice candore di un'altra batterista più soft quale la Mimi Parker (Low). Mercer si guarda attorno e vede noi quattro gatti spaiati e gli sfugge un sorrisino sfuggente che sembra chiedere “tutta qua Torino?”.

Poi però dopo aver fatto le presentazioni (annunciando tra l’altro che la madre della Campbell è di Tavagnasco, della serie ecchisenefrega?) iniziano a suonare e si capisce subito il peso dei vari elementi: Rak e Beattie se ne stanno in un angolo a suonicchiare senza troppe pretese i loro riempitivi per la chitarra di Mercer e la batteria della Campbell, che nonostante venga quasi oscurata dalla figura non certo esile del frontman riesce lo stesso a far sentire notevolmente la propria presenza con una varietà di battiti davvero notevole.

A vederla tra un pezzo e l’altro la Campbell fa però quasi tenerezza: se ne sta rigida e silenziosa con le mani tra le gambe chiuse come una scolaretta ad aspettare che Mercer si riprenda dalle sue esibizioni sfrenate. Però picchia la Campbell, picchia davvero forte quando vuole, e mostra una duttilità notevole nel variare i ritmi schizofrenici dei brani. A dominare la scena però, l’avrete ormai capito, ci pensa uno straripante Carey Mercer, che quando canta e suona balla, si scuote, si scatena, si appassiona davvero, ci crede insomma, crede nel rock. Crede nella sua capacità di scatenare fortissime emozioni tra deliri noise, scorribande psichedeliche e un’attitudine generale verso un rock sbilenco sparato come un treno ad alta velocità. Appassiona Mercer, perché non ha paura di lanciare urli e vocalizzi al limite delle sue possibilità, senza timore di rovinarsi la voce.

Tanto tra un pezzo e l’altro ha la sua fidata bottiglietta d’acqua ad aiutarlo a riprendere fiato! E nel frattempo suona anche Mercer, e lo fa da angelo caduto dal cielo con assoli davvero degni di nota, lasciando appena ogni tanto il compito di supportarlo allo squallido Beattie che intanto beve birra e che non riesco più a guardare dopo la mezzora di tedio che ci ha propinato in avvio di serata. Si scorre via rapidi verso la fine di un concerto purtroppo troppo corto (il gruppo suona solo un’ora) ma che riesce a stamparsi in testa con performance memorabili (Reform the countryside e la spettacolare Bushels) e con gustosi aneddoti del tipo “questa canzone l’abbiamo scritta dopo che ci siamo mangiati per sbaglio una torta piena di droghe”. Alla fine non si può che rimanere soddisfatti anche se un po’ di amarezza resta per la mancanza del solito siparietto “gruppo annuncia ultimo pezzo-esce-richiesta di bis-torna-suona-se ne va del tutto”. Mercer annuncia l’ultimo pezzo e poi via nei camerini e luci accese. In effetti questo è il dazio da pagare quando il pubblico è ridotto all’osso.

Prima di abbandonare il locale mi passano un programma delle prossime serata previste al locale e gli occhi si perdono a contemplare i nomi di Damon & Naomi (ex Galaxie 500), Tuxedomoon e 65 Days of Static. Qualcosa mi dice che una trasferta torinese allo Spazio 211 sarà quasi inevitabile. Anche se poi dovrà finire come ieri sera con un tortuoso ritorno a casa ancora più inzaccherato dell’andata. In fondo nella vita per trovare la bellezza bisogna soffrire.

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Cas alle 12:40 del 28 ottobre 2007 ha scritto:

ottimo live report, fedele e dettagliato! mi hanno proprio sorpreso questi frog eyes,che con i loro "blues" impazziti ci hanno dimostrato che il rock è ancora in ottima salute!