R Recensione

6/10

Frog Eyes

Pickpocket's Locket

A suonare indie rock, del folto gruppo di istrioni della canadian wave anni zero, ormai è rimasto solo lui, Carey Mercer, dopo che Spencer Krug, Dan Bejar e Dan Boeckner si sono dati ad altro, con più o meno efficacia, e dopo la fine dei supergruppi che li univano assieme (Swan Lake, Wolf Parade, Sunset Rubdown). Mercer ha mantenuto la sua fedeltà al progetto Frog Eyes, pur tra inevitabili deviazioni, ora che la band è in piedi da 15 anni e ha ormai messo in archivio una discografia di tutto rispetto.

Pickpocket’s Locket”, rispetto agli album che lo procedono, non spiccherà: la novità che lo contraddistingue maggiormente è la presenza quasi costante degli archi, arrangiati da Spencer Krug, ma l’effetto che ne risulta è quello di smorzare la potenza oltraggiosa e quasi maniacale del flow di Mercer, al solito sghembo e privo di direzione. I pezzi restano destrutturati e disorientanti, ma la produzione più pulita (i tempi del magma caotico di “Tears of the Valedictorian” sono davvero lontani) li priva di nerbo, così come la minore invasività delle chitarre, spesso acustiche. Peccato, perché, dove incidono di più, segnano i momenti migliori del disco, all’inizio, con “Two Girls (One for Heaven and the Other One for Rome)” (notevole l’apporto del sax), e alla fine, con l’epica di “Rip Down the Fences That Fence the Garden”.

Il ritorno alla batteria della moglie di Mercer, Melanie Campbell, garantisce un ritorno a un drumming scheletrico e cupo, fatto di spazzole e di suoni ovattati, che funzionano soprattutto nei pezzi più sinistri, vd. “The Beat Is Down (Four Wretched Singers Beyond Any World That You Have Known)”, dove è chiara l’azione disturbatrice dei violini, che sembrano voler portare l’idillio laddove ci sarebbe l’afflizione (il disco precedente, migliore di questo, affrontava i temi della morte del padre e della malattia), come altrove nell’album, con effetti spesso davvero deleteri, da quadretto watteauiano (“The Demon Runner”).

I Frog Eyes rimangono una band da “o si ama o si odia”. A me continua a sembrare interessante, anche quando, come qua, non dà il proprio meglio. E lo conferma un ascolto ripetuto del disco, che permette alle melodie nascoste nelle pieghe arzigogolate della voce di Mercer e nei bizantinismi strumentali di emergere con la grazia ruvida tipica dei Frog Eyes.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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