Cloud Cult

Feel Good Ghosts (Tea-Partying Through Tornadoes)

Ad appena un anno di distanza dal precedente “The Meaning Of 8”, tornano i Cloud Cult di Craig Minowa, con un disco annunciato come l’ultimo. Diffidare da simili proclama è naturale, tanto più che molto spesso si tratta di trovate dai biechi risvolti promozionali. In questo caso mi permetto di accantonare la mia diffidenza, e, anzi, di accompagnare all’annuncio un timido accenno di inquietudine. Non perché l’ultimo lavoro dei Cloud Cult sia memorabile, dato che non lo è, ma perché si tratta di uno dei dischi più torbidi e disturbanti che abbia ascoltato negli ultimi anni.

Se è discutibile, per lo più, dare troppo spazio alle vicende biografiche di qualsivoglia artista per spiegare le sue opere, nel caso dei Cloud Cult l’operazione diventa indiscutibilmente necessaria: dopo la perdita del figlioletto per ragioni inspiegate, ogni lavoro di Minowa è apparso come un tentativo di scavare nei propri abissi, di sondare i propri dolori, di cercare motivi e cause prime della vita e del distacco. Operazione sprofondante, oltreché, tutto sommato, sterile, perché ogni filo trovato ha condotto a un’infinita serie di altri garbugli.

“The Meaning Of 8” sviscerava ossessivamente il possibile rapporto tra vivi e morti, e nel cercare la chiave dell’infinito (l’otto, appunto, messo in posizione orizzontale) rimestava la struttura della canzone fino a confonderla col silenzio (“The Deaf Girl’s Song”). Il disco era un ammirevole intreccio di ritmi sghembi, melodie fuggevoli, inserti elettronici, voci corali, strumenti di ogni sorta e quieti improvvise. Ne usciva un’opera labirintica e a tratti geniale che non dovrebbe mancare in una collezione indie-rock che si rispetti.

Qui gli elementi restano gli stessi, ma l’ossessione diventa talmente mastodontica da far perdere la giusta traccia. Il sound si fa più cupo, pur restando nel terreno tra Beck e Flaming Lips; il numero di canzoni si riduce (13, tra cui due interludi riempitivi: molti meno rispetto ai 24 pezzi di “Advice From The Happy Hippopotamus” e ai 19 di “The Meaning Of 8”), la compatteza aumenta, pur in un quadro sempre molto variegato ed eclettico, nel quale le sezioni strumentali si guadagnano uno spazio maggiore, spesso eccessivo; il cantato ha un ruolo meno preponderante e spesso si concentra in una breve nicchia della canzone, sfociando per lo più in litanie corali un po’ bolse.

La sensazione è quella di un’energia potente e nervosa che però fatica a trovare uno sfogo: ritmi e sonorità sono frenetici, ruvidi (“The Tornado Lessons”, “Story Of The Grandson Of Jesus”), gli archi incupiscono (“Hurricane And Fire Survival Guide”, “When Water Comes To Life”), le voci danno un’aria cimiteriale, il caos è aggressivo (“No-one Said It Would Be Easy”), la tensione è continua (“Everybody Here Is A Cloud”), pochi i momenti di tregua (in direzione folk: “Journey Of The Featherless”, “The Ghost Inside Our House”). Ma il tutto, musicalmente, non dice granché.

Gli argomenti serpeggianti sono un sofferto invito a superare le difficoltà della vita e la ricerca di una complicata spiritualità. Ma è quando tornano a galla rabbiosamente stralci di vita vissuta che il disco raggela: così in “May Your Hearts Stay Strong”, nella quale Minowa ripercorre quasi come in una seduta analitica le fasi traumatiche del suo recente passato (“must have died in the place where she first said i love you”), in un crescendo musicale toccante: l’unico gran momento del disco. Chiudono il disco lo sfogo patologico di “The Will Of A Volcano” e l’elegismo evitabile di “Love You All”.

Peccato per il mezzo passo falso: “Feel Good Ghosts”, nel complesso, soffre la realizzazione frettolosa. Certo è che il disco pulsa, lascia turbati, graffia. E avere tra le mani un album vivo non è cosa frequente. Speriamo che Minowa ci dia l’occasione di stringerne altri in futuro. Lo dice lui stesso in “Journey Of The Featherless”: “Don’t sell my stuff on ebay, because I might be back before I’m gone”. In una forma più smagliante, ci auguriamo.