A Samuel Katarro: il “beach party” che non ti aspetti

Samuel Katarro: il “beach party” che non ti aspetti

Mi avvicino al bancone del Black House Blues, ordino una birra e chiedo agli amici: “ma quando arriva Samuel Katarro?”. In realtà non mi sono accorta che è proprio accanto a me, seduto sullo sgabello, accanto alla sua ragazza. Basco di lana e maglioncino a strisce, occhi chiari e viso pulito: sembra uscito da un fumetto autobiografico francese. Gli offro un sorso di birra ma rifiuta perché è sotto antibiotici. Iniziamo a parlare del più e del meno e l’intervista parte automaticamente, in modo naturale. Il suo nome curioso nasconde quello vero di Alberto Mariotti. Ha 23 anni e viene dalla provincia di Pistoia.

Perché proprio il blues e perché adesso?

È stata una necessità. Prima avevo una band, i Korova, e suonavamo noise, punk e new wave. Quando ci siamo sciolti mi sono ritrovato a suonare da solo con la chitarra acustica e questo è ciò che ne è uscito, in maniera spontanea, inaspettata, certamente non calcolata.

E come è possibile passare da un genere come il punk al blues?

È possibile forse perché faccio blues-punk! (sorride) Ciò che contraddistingue il punk, il noise e la new wave è la forte componente emotiva e questo li accomuna al blues.

Ci credi al fatto che questa componente emotiva spesso sia stata paragonata alla presenza del diavolo nel blues, proprio per questa forza che ti rapisce e ti porta verso luoghi ignoti di te stesso?

Se lo intendi in questo modo sicuramente si. Il blues ti permette di sfogare la rabbia, l’angoscia che hai dentro e che non sai nemmeno di possedere. Mi è capitato di sentirmi male dopo aver tirato fuori questi sentimenti suonando. Non so se è colpa del blues ma mi sono spaventato.

Senti un cambiamento nel tuo corpo anche nel momento in cui sali sul palco?

Si, quando salgo sul palco tutto cambia.

A quale pezzo del tuo album ti senti più legato e perché?

Beach party” è il mio primo album solista ed è molto vario perché avevo voglia di spaziare, quindi non c’è un filo conduttore che colleghi le canzoni. Magari col senno di poi ne rivaluterò altre però quella che preferisco è “com-passion”, perché mi ha fatto vincere il rock contest del 2006 ed è il pezzo che sento più mio.

Quali sono i tuoi prossimi programmi?

Laurearmi in giornalismo, mi mancano tre esami!

Al mio in bocca al lupo ringrazia e poco dopo sale sul palco con quattro chitarre. Ne imbraccia una e alle prime note inizia la magia di un viaggio che porta verso un passato affascinante di cui abbiamo sentito parlare ma che non conosciamo davvero, perché non ci appartiene. Il suo falsetto alla Skip James ci piazza davanti ad una realtà a cui non siamo abituati, che con l’immaginazione ci riporta agli afroamericani nell’Illinois che cantavano per non pensare al fardello delle loro vite. Storie tristi e trasandate, in un inglese sbiascicato, quasi incomprensibile. Gli occhi semichiusi, quasi rivoltati, fanno pensare davvero ad una possessione. Si susseguono pezzi come “from texarkana to texarkana”, “com-passion”, “there’s a lady inside the cabin”, “dead man on a canoe” e “headache”. Racconti di perdizione, di smarrimenti nel deserto “con una scimmia nel bicchiere” e di passeggiate notturne che finiscono in un bordello fra le braccia di una prostituta, di abbandono nel momento del bisogno. Tutto ciò ha poco a che fare con il party sulla spiaggia del titolo dell’album, ma è solo una delle tante contraddizioni che lascia intravedere Samuel Katarro attraverso i suoi lamenti e virtuosismi. A quel “ beach party” si è seduto in disparte, nel suo “hidden place”, ha rifiutato la confusione e l’alcol e si è lasciato andare, guidato solo dalle corde impazzite della sua chitarra.

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