R Recensione

8/10

Animal Collective

Feels

Il collettivo animale si riunisce, e questa volta tutti e quattro i membri fondatori si tirano su le maniche.

Si leggeva qua e la nei mesi scorsi che questa raccolta di brani fosse destinata ad essere la più accessibile nella discografia della banda di Brooklyn, ma in fin dei conti è solo la più cantata e la meglio “coesa”.

Infatti, laddove spesso si avvertiva l’estrema diversità e la non presenza di un vero collante fra i singoli episodi all’interno di un disco (che funga da esempio “Here Comes The Indian”), il nuovo presente ci fornisce una materia che è magma incandescente unico, un fluire compatto, adulto ma sempre memore del bambinesco senso di meraviglia e della disarmante esternazione.

Si riparte quindi dall’ispirazione libera, “emotivamente estrema” di “Sung Tongs” mantenendone lo spirito avant, l’animosità freak e l’intelligenza costruttiva pop, ma spostando il sipario del loro teatro zingaro dal sottosuolo dell’ondata folk ad un versante più elettrico, squisitamente analogico ma al contempo profondamente ambientale, fascinosamente dronato.

La voce è sempre più elemento portante, forse basamento definitivo poiché ormai utilizzata come un vero proprio strumento in tutta la sua lisergica versatilità (assaggiatevi quella delizia di “ultragioia” primitiva che è il singolo “Grass” e domandatevi se è figlia espressiva dell’ “ultraviolenza meccanica” di Kubrick…), e l’equilibrio fruitivo dell’album si gioca tutto fra momenti abrasivamente percussivi fino ad altri punteggianti scenari ambient, mai freddi perché memori e degni utilizzatori di colori candidamente “fauvisti”.

Did You See The Words” è marcia zampillante, cauta e costante allegoria della vivacità, rito iniziatico di svestizione dai generi, un riforgiare un costume puramente Animal Collective con l’ausilio di fraseggi libertini di piano magnificamente composti da Kristin Anna Valtysdottir dei Mùm (pianista co-protagonista in vari episodi del disco) e milioni di voci a sovrapporsi e ad autoincitarsi, così come nella veloce trance-nudità danzante ormai acquisita e meravigliosamente sottolineata dalla ritmicità contagiante di “Grass”, dove i nostri screanzati si appropriano di quel senso musicale anarchico e punk che è insito al loro modus operandi completamente fuori dagli schemi.

Flesh Canoe” invece è il primo bagno in un liquido pastoral-amniotico che mescola con dovizia sopraffina spettralità shoegaze, rarefazione ambient e psycho-labilità retro-avant (Eno-Barrett-Shields?), “Daffy Duck” è il secondo, e il senso di rarefazione si scompone in dilatazione e quiete con un violino lontano (suonato da Eyvind Kang), una chitarra a prendere coscienza dell’immensa dimensionalità, un piano dalla voce intermittente e le lezioni Kranky costantemente a rimbalzare fra i neuroni, e ancora “Loch Raven” è il terzo, con il suo bagaglio di sinuosità figlie delle selezioni paesaggistiche di Richard James e il connubio voce-percussione ad ipotizzare un dolby 5.1 di psichedelia polverosa.

Quel che rimane è un continuo girotondo armonioso ed infantile, un circo di note e voci e rumori che giocano a lambire il più possibile il caos stando ben attente a non tramutarsi in inutile noise, mantenendone però il tagliente deviazionismo.

Così è “The Purple Bottle”, quel ponte meraviglioso fra lo scazzo creativo del suonatore e la melodia che parte e va a collidere con l’orizzonte, fra “il perdere il senno” e l’ “acquisizione di un senso” e così è anche “Banshee Beat”, bellissima, col suo lieve iniziale dronismo chitarristico che s’insinua costante nella quiete della voce di Avey Tare e che si trasforma in cerebralità post rock puntellata dal calore inebriante del solito incrocio meravigliato-spiritico di percussione e voci.

Poco più di metà disco e un altro apice toccato.

“Bees” è cugina lontana dell’episodica evanescenza di “Sung Tongs” e di tutto quell’animismo spirituale candido e tormentato, mentre è già ora di farci un’altra “danza intorno al mondo” per celebrare la fine di questo fantastico settimo episodio, e allora “Turn Into Something” è ennesima sconnessione gioiosa, ebbrezza nella sua espressività primordiale, trascinante distorsione emotiva del reale perché si droga di eccessi naturali.

E rimane un senso di stordimento.

E’ solo poco meno di un’ora di musica, eppur sembra un arcobaleno parafrasato…

Feels”, appunto.

Recensione originalmente pubblicata e gentilmente concessa dalla defunta webzine www.idbox.it

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 5 voti.
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rael 7/10

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