The Dodos
Visiter
Per recensire questo giovane duo (ed ora novello trio) di San Francisco ho deciso di non dilungarmi in eccessive descrizioni, per lasciare spazio all’ascolto di quello che a mio modesto parere risulta l’opera più riuscita dell’anno che si sta concludendo.
Potrei cominciare dalla ventata caraibica che gli states hanno musicalmente portato ed esportato negli ultimi tempi, fusioni innovative nella commistione di folk, indiepop, produzioni dai tratti brianwilsoniani, tutte rigorosamente a bassissima fedeltà, che hanno caratterizzato la dimensione creativa e performativa di band come Okkervill River, Ruby Suns ed Animal Collective, e come da una costola di quest’ultimi sia stato concepito un altro imperdibile disco del 2007, ossia il progetto solista di Noah Lennox in arte Panda Bear (“Person Pitch”, Paw Tracks Recordings.)
Visiter è uno di quei dischi che si possono ascoltare e riascoltare, dove quiete sonora e ritmo accattivante sono alternati cosi sapientemente da arrecare sin dal primo ascolto una sorta di affezione istintiva.
Rispetto al primo loro lavoro: “Beware of the maniacs” del 2006, dove già si percepiva anche se certamente un po’ acerba, la direzione che la band voleva intraprendere, questo nuovo album perfeziona gli schemi sonori di alcune delle canzoni del precedente tramutandole in 14 splendide tracce.
Sin dalle prime “Walking”, “Red and Purple”, “Eyelids”, si fanno strada tra danze tribali e drum machine, ritmi sognanti ed atomosfere estive, le ammalianti melodie vocali di Meric Long, un po’ debitore degli stornelli del papà dell’indiepop Stephin Merrit (“Winter” ne è l’evidente e riuscitissima prova) e un po’ innamorato del folk e psichedelia più intimista a cavallo tra sessanta e settanta.
La movimentata Red and Purple va a braccetto con “Fools”, primo singolo estratto, dotato di una costante progressione che cattura l’ascoltatore corteggiato dagli innesti melodici, coretti alternati e grida animalesche.
“Joe’s Waltz” sembra essere in apparenza una ballatona voce-chitarra che aspetta solo di tramutarsi in quel finale forsennato e rumoristico che la contraddistingue. L’apparato percussivo tra bacchettate, tom, bidoni e tamburi artigianali esplode al grido di “you need help” .
La psichedelica ripetitività della manciata di minuti di “It’s That time again” non potevano terminare che con il suono di un trombone stonato, che apre le porte a “Paint the rust” altra folkeggiante parentesi dalla costante escalation ritmica.
Ma c’è spazio anche per una distensiva e meritata pausa su di una panchina autunnale con “Park song”, dolce e minimale storiella che distende l’atmosfera, prima di capitolare su toni e ritmi ben piu sostenuti con “Jodi” e “The Season”.
Come se non bastasse, a confermare il vasto background di Long, ecco spuntare due perfette trasposizioni di pop indipendente e nostalgico: “Ashley” e “Undeclair”. La prima, che è uno stornello d’amor perduto, affida il ritornello ad una delicata voce femminile, mentre nella seconda è la stessa tonalità di Meric ad assumere un aspetto scanzonatamente tweepop. È dolcezza allo stato puro racchiusa in poco meno di due minuti.
C’è ancora spazio in questo disco per un’ultimo ironico quesito con “God?” che con l’ausilio di campanelli e cembali potrebbe idealmente considerarsi la più elevata e felice conclusione per questo 2008... e pensare che tutto ciò sia stata opera di un paio di uccellini estinti da piu di trecento anni è alquanto stupefacente, in tutti i sensi.
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