Animal Collective
Merriweather Post Pavilion
La fattoria degli animali: George Orwell. Animal Crackers: i fratelli Marx. I Got Animals In My Soup: Shirley Temple.
Merriweather Post Pavilion è il nono album in nove anni per il collettivo avant pop più rappresentativo degli anni zero. Non solo: questo disco è lo zenith della loro perfezione laboratoriale. Il compimento della svolta sintetica già ampiamente accennata da Strawberry Jam. Come particelle che bombardano l’atomo rivelandone la composizione interna, un focus sulle dicotomie recondite da cui germina la quintessenza del loro sound: natura e artificialità, campagna e metropoli, fotosintesi e fotocellule, elettrolisi ed elettronica, corali ariose e suoni pressurizzati.
Complice la dipartita di Josh “Deakin” Dibb, secondo chitarrista del gruppo, Avey Tare, Panda Bear e Geologist Bear hanno buon gioco ad occultare le linee prettamente strumentali in un mare magnum di sampler e loop digitali, liquide profondità psichedeliche, basse frequenze che lambiscono il dub, ghirlande glitch, ingranaggi concreti che masticano lontani echi costruttivisti.
Senza tralasciare quelle loro squisite, frangiate melodie polifoniche, qui pur sempre presenti e, in taluni contesti, ancor più dorate, come farfalle che stormiscono attraverso la luce del sole, che fanno tanto Beatles e Beach Boys risucchiati via telecinesi in una sinfonia futuribile stile “Metropolis”.
Apre Into The Flowers ed è un ingresso trionfale, con tanto di standing ovation: psichedelia subacquea, a ventimila leghe sotto i mari, dove i resti del sottomarino giallo, affondato per festeggiare la fine della Guerra Fredda, si mescolano ai Pink Floyd “barrettiani” legati dagli spaghi sottili del picking di Avey, fra riflessi meccanici che filtrano distorti dalla superficie e un tamburellare intermittente di nacchere. My Girls non delude, anzi: sytnh e tastierine Casio spianate sullo sferragliare della ritmica, bassi concavi e profondi e cori che suonano come una tribù dell’Africa occidentale catapultata in un episodio di Top Of The Pops a metà anni ’80.
Also Frightned è il Sgt. Pepper a Little Big Horn che guida la cavalleria alla carica a passo di moviola: praterie di suoni compressi, tonalità dub e tam tam indiani. Summertime Clothes è forse la melodia più memorabile della loro intera carriera, roba da mettersi ballare sospesi sulla cresta spumosa d’un onda e poi lasciarsi spiaggiare al sole, distesi pancia sotto su un fluttuante tappeto techno/synth.
Daily Routine è minimalismo spettrale e psichedelico, tutto un brulicare di sonagli, sibili, accordi di piano fino sfociare in una sospensione fra la New Age e Badalamenti. Bluish è una parentesi sentimentale consumata fra i resti di Shuttle esplosi in epoca reaganiana (“Il futuro è degli eroi, non dei vigliacchi”) soft rock anni ’70, in sottofondo, per creare atmosfera in assenza di atmosfera.
Taste sono i Beach Boys processati da un Commodore 64. Le afroidi, aritmiche e tribali Guys Eyes e Lion In A coma (straordinaria la progressione vocale del ritornello e l’uso dello “marranzano”) sono cronache di un safari cosmico nella savana. E poi, come se il nostro cervello non avesse già abbastanza stupori di cui capacitarsi, il finale ci riserva altri due capolavori: No More Runnin’ pura narcosi downtempo avviluppata in un periplo di coralità tahitiane e Brothersport, un inno alcolico da confraternita universitaria (iota-epsilon-qualcosa) rutilato a moto perpetuo dalle lancette di una danza delle ore.
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